giovedì 27 febbraio 2014

i corti che escono su move 3/ techno

di Mauro Evangelisti


Techno
Si passa la mano tra i pochi capelli brizzolati e osserva gli studenti che riempiono l'aula magna da dietro gli occhiali da lettura. Poi mette da parte i fogli e conclude a braccio: «Siamo un punto di riferimento, nella nostra storia, per gli studi economici del Paese. Ricordatelo». Applausi, strette di mano dei professori. L'abbraccio della segretaria. «Ci vediamo lunedì - le dice - mi prendo qualche giorno di riposo». «Lo so, non si preoccupi». Nel sedile posteriore del Mercedes sfoglia il Financial Times, controlla sull'iPad le ultime notizie di economia. Squilla il cellulare: «Sì...ah sei tu Giovanni...guarda io ho riflettuto e secondo me su questa storia della fusione dobbiamo andare avanti per gradi, attendere che il clima politico sia favorevole. Ne riparliamo quando torno». «Professore, siamo arrivati» gli dice l'autista che scende ad aprirgli lo sportello. «Aldo, non c'è bisogno, piuttosto aprimi il baule che prendo il trolley. L'hai portato, non te ne sei dimenticato?». «Certo. Vuole che l'accompagni fino ai controlli sicurezza?». «No, vai, ci penso io, il bagaglio è leggero, ci rivediamo qui in aeroporto tra due giorni». Il professore in aereo dorme per tutto il volo diretto a Londra. Da Heathrow in taxi raggiunge un elegante appartamento a Chelsea. Entra, si libera dell'impermeabile, della giacca, della cravatta e scalcia via le scarpe. Si siede sulla poltrona e chiama la moglie: «Tutto bene, sono già a Chelsea. Tu tutto ok?» «Sì, Giorgio, tranquillo, oggi Asuncion ha cucinato divinamente. Tu divertiti, ma fai attenzione». «Come sempre, Eleonora». Il professore entra nella doccia, acqua caldissima, esce e si fa la barba. Con una pinzetta sfoltisce i peli delle sopracciglia, delle orecchie e del naso. Sul viso stende una crema al cetriolo, che tiene per quindici minuti mentre colora con uno smalto blu le unghie delle mani. Si lava la faccia e dal trolley recupera una grande parrucca rossa, calze a rete nere e un lungo abito color oro. Nell'armadio passa in rassegna una trentina di scarpe con i tacchi a spillo e ne sceglie un paio rosse con brillantini. Sistema tutto sul letto, ordine meticoloso, poi, sempre dall'armadio preleva un voluminoso beauty case. Vicino allo specchio prepara le matite di quattro differenti colori, un tubetto di fondotinta, tre rossetti, una confezione di ombretto. Due ore dopo sale su un taxi, il conducente resta impassibile vedendo quell'uomo di centottantasette centimetri, la parrucca rossa, il viso con il trucco psichedelico, l'abito dorato, le calze a rete nere, i tacchi a spillo. Tre ore dopo sta ballando in un angolo di una discoteca, la parrucca rossa ruota, le braccia si agitano, mulinano, le gambe, nonostante i tacchi a spillo, si muovono al ritmo della musica house. Attorno migliaia si agitano e non si fermano, qualcuno indica la consolle del dj, per sottolinearne la bravura. È un locale sotto una vecchia stazione di Londra e, anche se l'impianto di areazione è tra i più sofisticati, tutti sudano. Il professore, quando cambia il brano, accenna i passi di una marcia militare, tre ragazzine l'applaudono, lui sorride, ma non si distrae. Appoggiato al bancone del bar un buttafuori alla sua prima serata chiede al collega più esperto, indicando la parrucca rossa che ruota: «Ma quello chi è?». «Ah, tranquillo, non ti devi preoccupare di lui. Da dieci anni, una volta al mese, viene qui, vestito da donna. A volte prende anche ecstasy o coca, ma non esagera mai. Balla per cinque o sei ore, fino alla chiusura. Non ha mai combinato guai. Anzi, una volta ho dovuto proteggerlo da quattro ubriachi e lui mi ha allungato cento sterline di mancia. Ma i clienti abituali gli vogliono bene, lo rispettano, viene, balla, se ne va». «Ma cerca avventure?». «No, niente sesso. Gli interessa solo ballare. Vestito in quel modo». «Contento lui». «Il locale non sarebbe lo stesso senza di lui». Alle 7 del mattino il professore torna in taxi nell'appartamento a Chelsea. Si spoglia, ripone tutto con cura nell'armadio, fa una doccia, chiude le tende e dorme fino al tardo pomeriggio. Il giorno dopo prende l'aereo, saluta Aldo che lo accoglie all'aeroporto e torna a casa, dove cena con la moglie. «Come è andata?». «Molto bene, bella gente, dj così così». «Sei incontentabile. Senti, quasi dimenticavo - aggiunge mentre la colf, Asuncion, serve del tacchino - ha chiamato quel tuo amico giornalista, dice che il premier ti vorrebbe al governo, al ministero dell'Economia». «Fossi matto». «Poi, è arrivato un invito per una serie di conferenze a Vancouver, tra sei mesi». «Si può fare, ma lì vieni pure tu». «Uffa, sai quanto mi piacciano poco gli aerei. Ma se ti fa piacere, verrò. Ah, ricordati che tra un po' ti tocca pure Davos». «Che noia. E che peccato, c'è in programma l'esibizione di un dj olandese, un guru della techno, dicono che sia molto bravo, me lo perderò».

sabato 22 febbraio 2014

una mano sulla ferita, una mano sullo smartphone per comunicare con il mondo

di Mauro Evangelisti



Io vivo! Grazie
a tutti coloro
che mi hanno sostenuto
e hanno pregato per me!
@OlesyaZhukovska



Sì, magari tu passi il tempo a twittare sul festival di Sanremo e il vestito della Littizzetto, sul fatto che sotto casa le buche sono così ampie che potresti arrivare in piazza del Popolo, che le auto in doppia fila ai Parioli sono un flagello e speri che il comandante twittatore mandi i vigili. Ti trastulli a sbeffeggiare i tifosi dell’altra squadra cittadina, segui l’onda dell’hashtag che prende in giro il sindaco affondato con il nubifragio o semplicemente ti scambi sberleffi con chi la pensa diversamente. Twitti su belle ragazze che passano per strada, rilanci la foto degli involtini primavera al ristorante cinese, cerchi il gioco di parole più azzeccato sul nuovo film e conteggi con ansia il numero di retweet che ti fanno sentire figo.

martedì 18 febbraio 2014

I corti che escono su move 2/ baci freddi

copia e incolla da move magazine

di Mauro Evangelisti

Baci freddi

Baci freddi

Il processo è iniziato in ritardo. I giudici e gli avvocati hanno faticato a raggiungere il tribunale nella bufera di neve. Angelo è rimasto un'ora e mezzo ad attendere nella camera di sicurezza, insieme alle guardie carcerarie. Fuori tutto è grigio e bianco. E' una neve marcia, sporca, mista a nebbia. Desolazione e ineluttabilità. Sullo sfondo il campanile e i mezzi del Comune che provano a liberare le strade, un vecchio che bestemmia e trascina una bicicletta. «Sembra uno di quei documentari di National Geographic», dice uno degli agenti penitenziari. «Vedrai che ti assolvono», aggiunge rivolto ad Angelo.
I giudici sono riuniti per decidere la sentenza. Angelo tace anche con se stesso, ma l'accusa non ha dimostrato nulla. Non è stato trovato il coltello che ha colpito all'addome Laura. Non sono state trovate le impronte di Angelo. Non ci sono testimoni. E l'unico sconosciuto catturato da alcune telecamere di sorveglianza è una sagoma di un tizio che indossava ancora il casco, ma molto più grasso di Angelo. Eppure il magistrato è convinto che l'assassino sia lui: Laura lo aveva lasciato, Angelo continuava a cercarla, una volta l'aveva spintonata a terra, in un bar, perché lei non voleva più parlargli. «Ho 35 anni, cosa cazzo faccio della mia vita ora che te ne sei andata? Dovevi dirmelo prima che non mi amavi» aveva urlato prima dell'arrivo dei carabinieri. Angelo ha freddo e chiede agli agenti se può avvicinarsi al termosifone. Il calore riattiva, nella sua mente, il film dell'omicidio. Laura aveva sempre pensato che fosse un buono a nulla, una mezza sega, uno che non sapeva riparare la macchina o compilare i moduli in banca. «Sei come un bambino, ma ti voglio bene». Angelo aveva organizzato l'omicidio nei dettagli, voleva dimostrare di saper fare bene le cose: per un anno aveva cessato di cercare Laura, studiato le posizioni delle telecamere di sorveglianza, l'aveva pedinata e annotato i suoi orari. Aveva imparato a rendersi irriconoscibile: si tingeva i capelli, si lasciava crescere la barba, portava un cuscino sotto il giaccone per apparire più grasso. Quella sera fu facile: arrivò con uno scooter, scese senza togliersi il casco. Entrò nel palazzo mentre uscivano le impiegate del primo piano. Suonò da Laura e finse di consegnare dei fiori, quando lei aprì la porta, la scaraventò a terra e infilò il coltello nell'addome. Neppure Laura capì che il suo assassino era Angelo. Risalì sullo scooter, lo lasciò vicino a Termini e riprese il freccia rossa per Milano. Il piano era semplice: il giorno prima, con il suo nome reale era andato a Milano, aveva preso la camera di un hotel e acquistato un biglietto per una serata di un dj in una discoteca. Poi, aveva acquistato un nuovo andata e ritorno, tra Milano e Roma, ma alla cassa automatica, in contanti. Era tornato a Roma, aveva ucciso Laura, aveva ripreso il treno per Milano - parrucca bionda e barba tinta. Quando i carabinieri lo cercarono al telefono, era appena uscito dalla discoteca. Tutto perfetto: l'omicidio a Roma, lui nella discoteca di Milano. Ma il magistrato era riuscito a ottenere il rinvio a giudizio. Ora Angelo, dopo quattro mesi di carcere, era aggrappato a un termosifone, sperando di non dovere tornare in cella.
Quando il giudice aveva letto la sentenza, Angelo non aveva capito se era stato condannato e assolto. Solo la pacca sulle spalle dell'avvocato lo aveva rassicurato. Anche gli agenti della polizia penitenziaria, senza farsi vedere, gli avevano stretto la mano. Ora era un uomo libero. Stava camminando, sulla neve, da solo. Aveva chiesto all'avvocato che lo stava riaccompagnando a casa di lasciarlo per strada «ma sei sicuro? Con questa neve?», «non ti preoccupare, voglio godermi questa sensazione». Aveva smesso di nevicare, Angelo continuò a camminare anche quando raggiunse il portone del suo palazzo, ce l'aveva fatta, aveva ucciso Laura senza farsi scoprire. Aveva avuto ciò che meritava, aveva dimostrato di non essere un buono a nulla. Poi, Angelo alzo gli occhi verso il cielo. E capì. Capì che Laura non c'era più, non c'era più nulla, non c'era neppure il tepore che, anche nei giorni dell'odio, riemergeva pensando a lei, non c'era neppure, folle e fragile, la speranza che un giornosarebbe tornata. Si senti perso e solo. Si lasciò cadere sulla neve, allargò le braccia, sentì sul viso i primi baci freddi. Stava ricominciando a nevicare.

i corti che escono su move 1/ dal 2004 al 2014

copia e incolla da move magazine

Dal 2004 al 2014

di Mauro Evangelisti

Tra il 2004 e il 2014

«Perché sei venuto? Te l'avevo detto che sarebbe stato inutile».
«Almeno ho rivisto Bologna, è una bella città, no?».
Dalla vetrina del bar, dove sono seduti riscaldati da due tazze di cappuccino ancora piene, s'intravede lontano il piazzale della stazione. Poi la visuale viene oscurata da un autobus, mentre il nevischio misto alla pioggia confonde l'immagine. Anche se nel bar fa molto caldo, il cielo grigio scuro e la spruzzata di nevischio raccontano del freddo, dell'inverno che non finirà mai.
«Ma secondo te, dopo due anni ho deciso di andarmene con leggerezza? Pensavi sarebbe bastato presentarti qui per convincermi a cambiare idea?».
«Se tu fossi rimasta a Viterbo almeno avrei potuto parlarti, rivederti, spiegarti».
«Spiegarmi cosa, Massimo?».
«Che ti amo ancora, Roberta, che ti amerò sempre».
«Ah, davvero? Ma allora cambia tutto, allora dico a mia cugina che non mi serve più il lavoro al negozio qui a Bologna, che torno a Viterbo. Massimo ma che stai dicendo? Il problema è che io non ti amo più. Per questo me ne sono andata. Per questo ho voluto cambiare città. Hai 25 anni Massimo, ma è come se tu ne avessi 14».
Silenzio. Si avvicina il cameriere: «Volete mangiare qualcosa, ragazzi?». «No, grazie. Anzi, mi porti una bottiglietta d'acqua e il conto» risponde Roberta. Massimo resta in silenzio e torna a guardare fuori, passa un'ambulanza e il suono della sirena irrompe nel bar.
«Torna Roberta. Proviamo, dai».
Lei sospira, alza gli occhi al cielo. Poi prende le mani di lui, le stringe forte sul tavolo.
«Massimo, so già che è finita. Mi dispiace che ti sia fatto quattro ore di macchina, sotto la neve, per nulla. Io ti voglio bene, mi dispiace se ti ho fatto soffrire. Vedrai, tra poco ti metterai con un'altra e starai meglio».
«Questa volta sei tu a non essere molto originale. Pensi che funzioni così?».
«Sì, funziona così, ogni giorno milioni di storie finiscono e nascono, è normale. Fra dieci anni neppure ti ricorderai del mio viso».
«Tra dieci anni ti amerò ancora».
Si avvicina un uomo con i capelli bianchi, del Bangladesh, che vuole vendere delle rose. Roberta lancia uno sguardo ammonitore a Massimo, che sta cercando una banconota nel portafogli.
«Non ci pensare proprio, le rose sarebbero patetiche» lo blocca Roberta.
Poi, rivolta al venditore: «No, grazie».
Il barista gli dice di andarsene mentre lascia il conto e la bottiglietta d'acqua sul tavolino.
«Io ora devo andare, Massimo».
«Io ti amerò anche tra dieci anni».
«Quanto sei stupido».
«Io ti amerò anche tra dieci anni, anche se non ti incontrerò più».
«Ma dai».
«Non ti cercherò più, ti lascerò in pace. Però promettimi: rivediamoci qui tra dieci anni, stesso giorno, stessa ora, stessa città, stesso bar. E se questo bar non ci sarà più, sempre sotto questi portici. Ti dimostrerò che sarò ancora innamorato di te».
«Ma dai, queste cose si vedono solo nei film ».
«Non mi interessa».
«Dunque alle 3 del pomeriggio del 20 febbraio 2014?».
«Sì, alle 3 del pomeriggio del 20 febbraio 2014».
«Ma io avrò già 37 anni, sarò bruttissima. Tu invece sarai un trentacinquenne affascinante, non è giusto».
«Promettimi che verrai e io per dieci anni ti lascerò in pace. Anzi, dimentichiamoci l'uno dell'altra, non cerchiamo notizie sulle rispettive vite. Sarà più bello».

I dieci anni sono passati e anche il 2014, che a Roberta e Massimo sembrava tanto lontano e irreale è arrivato, così come un giorno ci sarà il 2024 o il 2034. Massimo non ha più cercato Roberta, lei ha rispettato solo in parte la promessa, perché un paio di anni fa ha cercato su Facebook la pagina di Massimo. Non si poteva visitare, perché la visibilità dei contenuti è limitata ai soli amici, ma Roberta ha visto la foto del suo profilo.

Oggi è il 20 febbraio 2014. Una bella donna con i capelli scuri all'altezza delle spalle, indossa una pelliccia e cammina sotto i portici, tenendo per mano un bambino di cinque anni. Entra in una bar - sì, il bar c'è ancora, è solo cambiato l'arredamento - e si dirige al bancone. Chiede un cappuccino e un bicchiere d'acqua per il bambino.
«Vuoi una pasta, Davide?».
«Sì», grida lui contento.
Lei si guarda intorno, scruta i tavolini, solo uno è occupato da tre studenti che stanno controllando sul tablet gli orari delle lezioni. Nessun altro. Il bambino mangia la pasta, lei lo pulisce con il tovagliolo di carta. Si volta, la porta del bar si sta aprendo. È un uomo anziano che lancia un saluto al barista e va via. Lei beve l'ultimo sorso di cappuccino e guarda l'orologio, ormai sono le 3 e 10.
«Andiamo, Davide, è tardi, dobbiamo fare la spesa».
Apre la porta, una sferzata di freddo e nevischio.

venerdì 7 febbraio 2014

Su Twitter e Facebook va' dove ti porta il rancore

copia e incolla da il messaggero

di Mauro Evangelisti

Twitter, Facebook: c'era un tempo in cui i social network servivano anche a diffondere notizie utili in caso di eventi imprevisti ed emergenze. Ora tutto questo viene oscurato - e in una città dai nervi tesi come Roma è ancora più evidente - dalla corsa a dissacrare, accusare, replicare alle accuse, ridicolizzare, lamentarsi o sbeffeggiare. Tutto bene, se non fosse che a volte viene da pensare che se fossimo passeggeri del Titanic piuttosto che correre alle scialuppe, aiutando chi è in difficoltà, saremmo molto più concentrati nella ricerca dell'hashtag più fantasioso per ridicolizzare il capitano imbranato. Ogni tanto un ex assessore comunale, Gianluigi De Palo, rimbrotta su Twitter i suoi successori in difficoltà che quando stavano all'opposizione sentenziavano allegramente: «Vedete quanto sia più facile fare un comunicato e quanto sia più difficile governare?». Non ha tutti i torti, anche se è una ruota che gira, e lo stesso varrebbe a parti invertite. Il problema vero - a Roma è lampante - è che i social network sono davvero dei grandi bar virtuali, dove non di rado  prevale la voce di chi la spara più grossa, anche se magari ha alzato il gomito e dice delle castronerie. Un post o un tweet corrosivo ci illude di essere fighi, ci autoassolve e soprattutto alimenta la sicurezza che la colpa è sempre di qualcun altro. Fateci caso: andate su Facebook (al netto di frasi melense e video sull'anniversario dei dieci anni) e su Twitter. Contate quanti post o tweet sono in negativo, astiosi o ridicolizzanti.  La maggioranza, no?

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