venerdì 28 marzo 2014

Trolley, il rumore della vita che corre a Roma

di Mauro Evangelisti

Ecco, li senti arrivare dall’ormai tradizionale rumore del trolley sui sampietrini, che non furono ideati pensando che un giorno ci sarebbero state delle valigie con le ruote. E a vagare, con uno spicchio di vita chiuso in fretta dentro un trolley non sono solo i turisti, sono le nostre esistenze di corsa. Quelle che miracolosamente incastrano il trolley in uno scooter, corrono a prendere treni dell’alta velocità. Si precipitano - tlac-tlac-tlac - ad appuntamenti di lavoro e dentro al trolley hanno il tablet con l’altro pezzo di vita, quello a metà tra nuvola e memoria interna, perché ci serve la biancheria da portare a lavare dalla mamma o in tintoria ma anche quel file che devi avere sempre con te. 

giovedì 27 marzo 2014

i corti che escono su move /5 la colpa e la felicità

copia e incolla da move

di Mauro Evangelisti

La colpa e la felicità Ho ucciso un uomo. No, non gli ho sparato, non l'ho accoltellato, non l'ho pestato. L'ho ucciso per pigrizia. Ecco, forse è il caso che spieghi meglio cosa è successo, mi aiuterà a fare pace con me stesso. Forse. Ero fermo su un marciapiedi, indeciso se tornare a casa per prendere l'ombrello, visto che il cielo era scuro, e preoccupato perché la batteria del cellulare era meno carica di quanto pensassi. La mente era occupata da pensieri che deviavano l'attenzione. Un uomo si è avvicinato e mi ha chiesto: «Scusi, dov'è via del Giglio?». Io ho avuto come una scossa perché qualcuno aveva interrotto il flusso dei miei pensieri e, inconsciamente, ho provato fastidio. Ho risposto brusco: «Non lo so». Poi, per non risultare maleducato ho aggiunto: «Mi spiace». Lui ha alzato le spalle: «Non si preoccupi. Chiedo al bar qui di fronte». Ma io so dov'è via del Giglio. Semplicemente, sul momento, stordito per quella richiesta inattesa mentre tentavo di risolvere i miei problemi, tra ombrello e batteria del cellulare, ho rifiutato lo sforzo di elaborare una spiegazione per guidare quell'uomo fino a via del Giglio. Lui si è allontanato in fretta, si è voltato, dopo le mie scuse, rassicurandomi che avrebbe chiesto al bar di fronte, è sceso dal marciapiedi per attraversare la strada, ed è stato travolto da un bus. Ho visto il corpo trascinato e schiacciato dalle ruote, ho sentito le urla di altri che hanno assistito alla scena, sono andato a soccorrerlo, ho chiamato l'ambulanza, atteso che lo liberassero, udito il medico dire che non c'era nulla da fare, raccontato ai vigili urbani cosa avevo visto, lui che andava di fretta, che scendeva dal marciapiedi, che attraversava senza guardare, il conducente del bus che non ha fatto in tempo a evitarlo. I vigili mi hanno detto che si chiamava Gilberto, aveva 39 anni, era di una città vicina ed era diretto in via del Giglio per incontrare il proprietario di un'azienda che gli aveva offerto un posto da dirigente. «Che sfortuna» ho commentato con il vigile. Ma non gli ho detto - non l'ho detto a nessuno - che l'uomo mi aveva chiesto dove fosse via del Giglio, che se gli avessi risposto lui non avrebbe tentato di raggiungere il bar. E non sarebbe morto. Ora porto con me questo fardello, questa convinzione di avere causato la morte di un uomo, tutto a causa di una reazione istintiva di fastidio ingiustificata. Ieri ho preso la macchina e ho guidato fino alla città della vittima dell'incidente, sono andato al funerale. Ho visto una signora curva, capelli bianchi, piangere. «E’ la madre», mi ha spiegato uno seduto vicino a me in chiesa. Poi si è avvicinata alla bara una donna con i capelli castani e lisci, un po' robusta, fianchi larghi, ma dal viso intenso e gli occhi scuri. «È la moglie. Poverina, è rimasta sola, non hanno figli». Non dimenticherò il viso di quella donna. Da un mese non vado più a lavorare. Il medico mi ha firmato i certificati, lo fa perché è un amico, ma anche perché vede che sto male. La sera, prima di addormentarmi, ripenso a quel susseguirsi rapido di attimi, a come avrei potuto modificare il flusso degli eventi. Sarebbe bastato che avessi ricaricato durante la notte il cellulare, per non essere distratto da quella preoccupazione, e dunque avrei spiegato a Gilberto dov'era via del Giglio. Sarebbe bastato che avessi preso l'ombrello prima di uscire. Ma sarebbe stato sufficiente molto meno, per cambiare la concatenazione degli eventi, fossi uscito di casa un secondo prima o dopo, lui non mi avrebbe chiesto l'informazione e non avrebbe deciso di attraversare. Ma semplicemente - è la constatazione che mi fa più male - avrei dovuto rispondergli, dirgli dov'è via del Giglio: lo avrei salvato. Sono trascorsi dodici anni. Un giorno hanno bussato alla porta del mio appartamento. «Le non mi conosce, ma vorrei parlarle», mi ha detto una voce di donna. Stavo per mandarla via, poi ho guardato dallo spioncino: era il viso della donna del funerale, era il viso della moglie di Gilberto. Mi ha detto che era risalita a me tramite un amico dei vigili urbani, che voleva chiedermi un grande favore, che le parlassi dell’incidente di Gilberto, poiché ero l'ultimo ad averlo visto. Abbiamo parlato a lungo, anche a lei ho raccontato solo una parte della storia, non le ho detto che tutto era successo per colpa mia. Cominciammo a frequentarci, ci siamo fidanzati e sposati, sono nati due figli e siamo felici, io sono felice. La mia felicità è stata originata dalla morte di un uomo che io stesso, per un gesto di pigrizia, ho causato. Non c'è giustizia in questo mondo.

mercoledì 12 marzo 2014

i corti che escono su move 4/ l'invidia e l'amicizia

copia e incolla da move

di Mauro Evangelisti



L'invidia e l'amicizia

Oggi ho ritrovato il diario di mio padre. A trent'anni dalla morte. Parla molto della sua musica e delle sue delusioni. Ho pensato che sarebbe stato bello usarlo per scrivere un libro sulla sua vita. Ma dopo aver letto il diario ho compreso che sbagliavo. Ci sono due vite che corrono parallele, nel diario: quella di mio padre e quella di Loreno Bosotti. Oggi nessuno lo ricorda, a parte pochi esperti di musica. Eppure Bosotti fu uno dei musicisti più popolari in Italia, riempiva i teatri e sembrava dovesse segnare per sempre la storia della musica. Poi, però, dopo la morte, avvenuta pochi mesi prima di quella di mio padre, le sue canzoni furono dimenticate, se ne comprese la futilità e l'inutilità. Bosotti questo non lo seppe, perché quando morì era ancora riscaldato dai raggi di sole della gloria. Mio padre era cresciuto con Loreno Bosotti, avevano studiato musica insieme, lavorato nello stesso ristorante da giovani, diviso l'appartamento. Erano amici, fratelli. Poi qualcosa cambiò: nessuno amava la musica di mio padre, le case discografiche rifiutavano le sue canzoni; Bosotti al contrario riuscì a pubblicare un disco e, complice il sorriso che piaceva alle signore del tempo, scalò con rapidità le montagne del successo. L'amicizia si sfaldò. «Non riesco a comprendere come sia possibile che la musica di Loreno abbia successo: è banale, copiata, senza estro. La mia è genio, creatività, tecnica. Eppure non la vuole nessuno». Ecco leggendo queste righe del diario si può pensare che mio padre, che continuò a lavorare come cameriere, fosse invidioso, perché vedeva l'amico raggiungere un risultato straordinario a cui lui stesso aspirava; che facesse prevalere il rancore sull'amicizia.  Non è così: mio padre realmente era convinto che la musica di Bosotti non fosse arte, fosse poco più che spazzatura e non riusciva a spiegarsi come raccogliesse un tale successo a fronte del fallimento delle sue composizioni, che considerava assai migliori. Bosotti però soffrì per l'allontanamento di mio padre. Non so se fu perché realmente lo considerasse un bravo musicista o semplicemente perché voleva riconquistarne l'amicizia, ma lo aiutò a pubblicare il primo disco, minacciando la casa discografica di rompere il contratto se non avesse dato una possibilità all'amico. Ma quel gesto di generosità aumentò le distanze, perché la constatazione che il disco non piaceva al pubblico, che nessuno lo comprava e che veniva deriso dai critici, rese mio padre ancora più frustrato e astioso nei confronti di Bosotti. Seguirono altre uscite, che la casa discografica concesse perché temeva le ritorsioni di Bosotti, che intanto divenne una stella internazionale, con teatri pieni a Parigi, Londra, New York, Buenos Aires. Mio padre con i dischi non guadagnò mai a sufficienza per lasciare il lavoro di cameriere. Forse mia madre e io fummo la sua unica felicità, mentre sui giornali vedeva le foto di Bosotti con le attrici più belle del mondo, tre matrimoni e sei figli sparsi per il mondo. Un giorno - questo non lo sa nessuno, ma l'ho letto sul diario -  mio padre chiese un appuntamento a Bosotti. Malgrado le insistenze di Loreno, mio padre aveva sempre rifiutato, per molti anni, di incontrarlo. Bosotti fu dunque stupito da quella richiesta. Lo accolse in un piccolo appartamento in città, non voleva umiliarlo incontrandolo nella sua villa hollywoodiana in campagna. «Volevo dirti che ho un brutto male - spiegò mio padre - anche questa volta vincerai tu, avrai una lunga vita, con i tuoi figli e i tuoi nipoti, mentre io lascerò soli mia moglie e mio figlio». «Ma io ti voglio bene, ti ho sempre considerato il mio migliore amico. E un grande musicista. Non mi sono mai sentito in competizione con te». Mio padre non rispose e se ne andò. Il destino fu strano: due mesi dopo, Bosotti morì per un infarto, mio padre, sia pure già piegato dalla malattia, andò ai funerali, tra centinaia di migliaia di persone. Dopo due mesi morì anche lui, non seppe mai che Bosotti aveva disposto che mi fosse versato un generoso vitalizio per gli studi. Tre anni dopo un regista scelse una vecchia canzone di mio padre per la scena più importante di un grande film. Quel brano ottenne così una popolarità straordinaria. La casa discografica ripubblicò tutti i dischi di mio padre, che anno dopo anno, ebbero una diffusione inattesa. I critici dissero che papà era uno dei più formidabili compositori del secolo, le sue canzoni divennero un classico nella storia della musica e tutt'oggi sono considerate dei capolavori. La musica di Bosotti è stata dimenticata. Ma questo mio padre non lo saprà mai. 

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