lunedì 24 agosto 2015

i corti che escono su move magazine 34/ tegel

copia e incolla da move magazine

di Mauro Evangelisti

Tegel A Berlino il buio è macchiato dalla luce livida dei lampioni e da una lieve striscia bianca di neve che cade. Un uomo, indifferente al freddo, percorre un marciapiede in salita, entra in un tunnel da cui esce dopo un minuto e infine svolta a destra, su una strada laterale, mentre vicino a lui scorre continuo un flusso di Golf e Mercedes quasi sempre scure. All'entrata di un palazzo di tre piani, dove lampeggia un neon rosa a forma di cuore, sorride a una donna bionda e con il seno rifatto in vista. Potrebbe avere tra i 35 e i 60 anni, è alla reception. «Settanta euro?» chiede lui in inglese. «Certo» risponde lei con un sorriso burocratico. «Non le spiego come funziona - aggiunge - perché mi sembra di averla già vista qui altre volte». «Naturalmente» dice. Riceve una chiave con scritto 237, dopo avere pagato con una carta di credito. Mentre si allontana verso gli spogliatoi, la signora della reception verifica sul computer che la sua memoria non sbaglia: da trentasei mesi con quella carta di credito è stato pagato l'accesso al club. Una volta ogni mese, non una di più, non una di meno. «Italiano...» sorride, ma quasi con tenerezza. Intanto l'uomo si è spogliato e ora mostra un corpo da trentacinquenne a cui servirebbe un abbonamento a una palestra, ma comunque non brutto. Richiude l'armadietto dove ha lasciato i vestiti, si arrotola un asciugamano ai fianchi come fosse una gonna, non ascolta le risate di tre uomini, probabilmente francesi, che parlano di una ragazza ucraina. Dentro, nella zona delle piscine distribuite attorno a un bar dove siedono molti cinquantenni, alcuni sessantenni, e gruppetti di ventenni, tutti nudi coperti solo dall'asciugamano, lui squadra le ragazze che invece non hanno nulla, solo un paio indossano dei perizoma, la maggioranza neppure quello. Alcune sono annoiate, altre sorridenti, altre ancora lanciano sguardi verso gli uomini come se cercassero il segnale per il telefonino. L'italiano però non guarda nessuno, va dritto verso una vetrata che porta a una sala dove c'è scritto restaurant. C'è un buffet, si serve da mangiare - patate lesse e del pane - e si siede all'unico tavolino libero. Negli altri ci sono almeno ottanta clienti con il solito asciugamano e una decina di ragazze, ma in quella sala c'è una sorta di sospensione della contrattazione, una tregua, si pensa solo a mangiare. Poco dopo una ragazza asiatica nuda si siede vicino a lui e taglia con puntiglio una cotoletta. Non parlano, nessuno parla in quella zona. Quando finisce di mangiare, l'uomo ripone il vassoio su un carrello in cui c'è scritto "thank you" e si avvia al bar. Si fa servire un gin tonic da un barista grosso e pelato. Poi cammina da un punto all'altro della vasta area grande come un campo da calcio. Esplora con lo sguardo le piscine, apre la porta di una sauna per vedere chi c'è dentro, entra in una sala scura. Qui su un grande schermo ci sono le immagini di un film porno, sui divanetti c'è una bionda che sta facendo un pompino a un ciccione con i capelli rossi che ansima come se stesse russando. Poi nell'ultima fila, stesa come se stesse riposando ma in realtà in una posa molto eccitante per i potenziali clienti, vede una ragazza con i capelli lunghi e corvini, le labbra carnose. Lei accenna un lieve sorriso, lui è come se avesse completato una ricerca. «Cento euro come al solito?». «Cento euro, vuoi la stanza privata come sempre?». «Certo». Il sesso tra loro dura poco, neppure quindici minuti, poi lui si stende a pancia in su, fissando le false stelle del soffitto. «Per favore, resta un altro po'» le dice. «Non posso restare molto, sto lavorando, lo sai». «Solo dieci minuti». «Solo dieci minuti». Lui le stringe la mano, lei lo lascia fare, ma non ricambia. «Forse è venuto il momento che la smetti con questo lavoro, che torni in Italia. Se vuoi ci trasferiamo in un'altra città, in un altro continente. O altrimenti vieni da me, a Birmingham, il lavoro mi sta andando bene. Qualsiasi soluzione...ma io così non ce la faccio più». «Tutte le volte, tutte le volte mi ripeti questa storia...dai, Piero...». «Io ti amo ancora, lo sai». «E io no, non ti ho mai amato». «Facciamo tornare tutto come prima». «Come prima? Ma Piero noi non siamo mai stati insieme... È da quindici anni che mi dici di essere innamorato: me lo dicevi all'università, me lo hai ripetuto quando lavoravo nell'assicurazione di tuo padre. Perfino ora che qui faccio la prostituta... E forse lo sei davvero, innamorato, non voglio ferirti. Però io non ti amo e non ti amerò mai». Per un attimo, impercettibilmente, lei gli stringe la mano. Poi lui si alza, le accarezza i capelli, le sorride, «allora ci vediamo tra un mese?». «Certo, sei un cliente, non te lo posso impedire». Piero lascia la stanza senza voltarsi e dopo quindici minuti è di nuovo immerso nel freddo di Berlino, nevica più forte. Il mattino dopo, all'aeroporto di Tegel, mentre attende l'imbarco, sul tablet cerca un volo Birmingham-Berlino per il mese successivo.

i corti che escono su move magazine 33/ il bambino sacro


copia e incolla da move magazine


di Mauro Evangelisti


Il bambino sacro

Sapevamo che l'Impero del Nord un giorno ci avrebbe attaccato, ma mai avremmo immaginato con tale crudeltà e ferocia. Iniziarono con gli atti terroristici più disumani: alcuni infiltrati fecero esplodere una decina di asili, uccidendo oltre tremila bambini. Il giorno stesso il leader dell'Impero del Nord apparve in tv e affermò: «Il grande e ultimo attacco alla Repubblica del Sud è cominciato, non avremo pietà perché questo ci chiede la storia: li stermineremo». Nei giorni successivi, nelle nostre città, altri infiltrati sparsero sangue e terrore, con attacchi rapidi e spietati. Riuscimmo a fermare, uccidendoli, solo due di loro. Spararono nei centri commerciali, misero bombe sui treni, ammazzarono con dei gas velenosi centinaia di persone nella metropolitana. Eppure, il peggio doveva ancora arrivare. Chiedemmo aiuto alle altre nazioni, spiegammo che presto l'Impero del Nord avrebbe attaccato anche loro, ma fu inutile: tutte, spaventate, rivendicarono la loro neutralità. Quando lo Stato delle Colline si limitò ad accettare un incontro con il nostro presidente, l'Impero del Nord bruciò il loro aeroporto. L'incontro fu cancellato e ci trovammo ancora più soli. Fu allora che iniziarono i bombardamenti: la nostra contraerea era impreparata, quasi ridicola di fronte a migliaia di aerei nemici che ogni giorno sorvolavano ogni angolo del paese. Gli obiettivi inizialmente furono solo militari, poi quando le nostre postazioni furono distrutte, iniziarono scientificamente a bombardare ospedali, case di riposo, scuole. E poi i monumenti, quasi a rimarcare che il nostro popolo saremmo stato sterminato e quindi anche delle testimonianze della nostra lunga storia non sarebbe rimasta traccia. Con il presidente visitai le scuole disintegrate, vidi i brandelli dei bambini uccisi, sentii le donne urlare, consolai giovani orrendamente mutilati. Stava finendo tutto e lo sapevamo. Era solo questione di tempo. Un mese dopo l'inizio della grande offensiva il presidente ci convocò nel suo bunker sotterraneo dove era stato costretto a trasferirsi per garantire ancora una parvenza di guida alla Repubblica. Eravamo una decina tra ministri e consiglieri. Malgrado la mia giovane età, io rappresentavo i servizi segreti, perché il direttore in carica era stato ucciso in un bombardamento. «Ho tentato di contattare il leader dell’Impero del Nord per chiedergli una tregua» disse il presidente con voce esitante. Tutti reagimmo con sdegno, «è inaccettabile» mi lasciai scappare. Il presidente alzò la mano, per placarci: «Non è neppure il caso di parlarne, visto che il leader ha rifiutato qualsiasi contattato e si è limitato a farmi sapere che nel giro di sei mesi il nostro popolo e la nostra nazione non esisteranno più. Da quello che ci dicono i servizi segreti - aggiunse indicando a me - tra una settimana comincerà l'invasione, centinaia di migliaia di soldati dell’Impero del Nord oltrepasseranno il confine. E per noi non ci sarà scampo». «Abbiamo solo una possibilità» lo interruppi. Tutti mi guardarono stupefatti. «Dobbiamo uccidere il bambino sacro e trasportare nel nostro territorio il suo cadavere». L'Impero del Nord da almeno trecento anni era guidato da una casta di militari che aveva forgiato il popolo secondo alcuni valori che a noi apparivano disgustosi. Nessuno metteva in discussione le scelte della giunta militare. Quando le loro bombe uccisero migliaia di nostri bambini negli asili, i cittadini dell’Impero del Nord scesero in piazza a festeggiare. Non erano forzati dal regime, ormai c'era una adesione totale al sistema. Ma in base ad un'antichissima tradizione che neppure la casta dei militari aveva osato modificare (anzi l'aveva salvaguardata perché ne vedeva l'elemento unificante del popolo) l'Impero del Nord venerava il bambino sacro. Era scelto dai sacerdoti, sulla base di alcuni principi misteriosi, e aveva tra i 2 e gli 8 anni. Al compimento dei nove anni il bambino lasciava il tempio e tornava a una vita normale, mentre il suo posto veniva preso da un altro bambino di due anni. Per il bambino sacro c'era venerazione assoluta; senza il bambino sacro l'Impero del Nord si sarebbe liquefatto, perché sarebbe venuto a mancare quell’elemento unificante. Ogni giorno centinaia di migliaia di cittadini dell'Impero si mettevano in fila per veneralo. La mia missione era semplice: entrare nel tempio, uccidere il bambino e portare il corpo nel nostro territorio. A quel punto, con il cadavere del bambino in nostro possesso, l'Impero del Nord non avrebbe mai più osato attaccarci, sempre che fosse riuscito a sopravvivere a un tale choc.
È stato molto facile, sono un ottimo agente e l'Impero è presuntuoso, non si aspettava un nostro attacco. Il servizio a protezione del bambino sacro, nel tempio, è quasi inesistente, perché nessuno lì penserebbe di attentare alla sua vita. Ho ucciso il sacerdote e ora sono solo, in una stanza con le pareti rosse, davanti al bambino sacro. Ho il coltello in mano, lo devo sgozzare. Lui ha due anni e mi sorride. Dice cose incomprensibili, mi invita a giocare con un bambolotto. Io penso ai cadaveri dei nostri bambini, alla guerra che finirà se affonderò il mio coltello nel suo ventre. Lui mi guarda, ride ancora e batte le mani.

mercoledì 15 luglio 2015

i corti che escono su move magazine 32/ quinto piano

copia e incolla da move magazine

di Mauro Evangelisti

Quinto piano
Verso il contenuto di un barattolo di ceci in un piatto di plastica per non dovere poi lavare quello di ceramica. Ci aggiungo un po' di olio e li mangio con dei cracker. Quando ho finito, getto tutto nella pattumiera e dal frigo prendo dello yogurt alla fragola. Questo è il mio pranzo. Mi stendo sul divano, accendo la tv, mi fermo su un programma che parla dell'attacco dei giapponesi a Pearl Harbor. Lascio l'audio in sottofondo, mi metto supino e chiudo gli occhi, per un po' ascolto, poi mi addormento. Amo il mio giorno libero dal lavoro, penso prima che il sonno prenda il sopravvento. Mi sveglia il suono, acuto, del campanello. Tre driin, poi due colpi alla porta decisi. Non viene mai nessuno a casa mia, cosa sta succedendo? Decido di non aprire, ma i colpi alla porta si fanno più violenti. Mi alzo, chiedo chi è, mi risponde una voce dal vago accento straniero. «Apra, mister Antonio, è importante». Apro, la voce è rassicurante. L'immagine che si presenta meno. Un uomo enorme, almeno due metri, robusto, con i capelli lunghi legati in una coda, i lineamenti asiatici. Indossa un completo scuro. Indossa occhiali con una montatura nera che mitigano l'aggressività dell'aspetto. Vicino a lui c'è un gatto scuro, ma non è un gatto normale. È molto grande, quasi come un leoncino, ma so che è un gatto. «Dobbiamo parlarle di un argomento di estrema importanza, però è meglio se chiudiamo la porta». Mi gira la testa, so che non sto dormendo e dunque non sto sognando, ma a parlare è il gatto, non l'omone asiatico. E visto che la voce è la stessa, aveva parlato lui anche quando la porta era chiusa. Mi rivolgo all'omone, perché mi pare assurdo dialogare con un gatto e gli chiedo: «Ma cos'è? Un pupazzo? È qui per vendermelo? Io non ho bambini». Il gatto sbuffa come se gli stessi facendo perdere tempo, l'omone si limita a rispondere: «Si chiama Murakami ed è un gatto vero». Poi lui e il gatto si siedono sul divano, mentre io resto in piedi. «La cosa di cui dobbiamo parlare è di estrema importanza - dice il gatto - per cui per favore non perdiamo tempo con particolari secondari. Concentriamoci su ciò che è davvero interessante». Prendo una sedia e ascolto, non so cosa altro si debba fare quando un gatto ti parla. «Lei mister Antonio conosce la signorina Paola, vero? Siete stati fidanzati tredici mesi, se non sbaglio. E vi siete lasciati....mi faccia pensare...». Alza gli occhi verso il cielo, come se stesse facendo un calcolo. «47 giorni fa» gli suggerisce l'omone, sussurrando. «Sì, 47 giorni fa». Io inizio a tremare, parlare di Paola mi fa questo effetto, non perché la ami ancora, ma per quello che è successo dopo che ci siamo lasciati. «In realtà lei ha lasciato la signorina Paola - prosegue il gatto - e ciò che è successo dopo è assai spiacevole». Il gatto fa una pausa, non capisco se è perché anche lui è addolorato o perché ha perso il filo del discorso. «Dal quinto piano» sussurra l'omone. «Sì, ecco, la signorina Paola si è gettata dal quinto piano. È da allora è in coma. Noi ipotizziamo che l'abbia fatto perché lei l'ha lasciata, per quanto appaia irragionevole che qualcuno possa ritenere uno come lei, mister Antonio, così importante». «E anche lei, mister Antonio, pensa che si sia gettata dal quinto piano per il dolore causato dalla sua decisione di interrompere la vostra storia» aggiunge l'omone. Restiamo in silenzio, per alcuni minuti, sul mio viso scorrono delle lacrime, ma non le asciugo. Riprende a parlare il gatto: «Ora le diamo la possibilità di rimediare. Andrà a recuperare la signorina Paola, la convincerà a risvegliarsi dal coma. Solo lei può farlo». Sono salito in macchina con loro, una vecchia Fiat Multipla, ci siamo seduti tutti e tre davanti. L'omone ha guidato lento e senza scossoni per un paio di ore, durante le quali siamo rimasti in silenzio, mentre il lettore cd ha trasmesso tre differenti album di Laura Pausini. A un certo punto non ho riconosciuto il paesaggio. Ci siamo fermati ai margini di un bosco. «Vada, la troverà». Ora siamo circondati da alberi altissimi. Paola ride: «Ma tu pensi che mi sia gettata dal quinto piano per te?». «Ma anche il gatto lo pensa...». «Chi?». «Niente, niente, comunque io volevo chiederti di tornare, di risvegliarti». Lei ride più forte. «Ma tu non c'entri nulla, io stavo con te perché non avevo alternative. Ma mica ti amavo. Quando mi hai lasciato, ho semplicemente realizzato che ero davvero sfortunata, perché nella mia vita non succedeva mai nulla di bello, e perdevo perfino un uomo inutile come te. Tutto qua. E tu non puoi certo chiedermi di risvegliarmi. Deciderò io se farlo, e ancora non ho deciso». Se ne va, io resto solo nel bosco, più oscuro di prima. Non si è gettata dal quinto piano per me, penso. Nessuno si getterebbe dal quinto piano per me. Mi sento irrimediabilmente inutile. Voglio restare in questo bosco. Mi ritrovo steso sul divano. Mi alzo, vado sul balcone, piove. Siamo al quinto piano.

sabato 11 luglio 2015

i corti che escono su move magazine 31/ spegni e riaccendi

copia e incolla da move magazine

di Mauro Evangelisti

Spegni e riaccendi
Sapevamo che sarebbe successo. All’inizio degli anni Duemila qualcuno lo previde, anche se ne tracciò i contorni in modo confuso. All'inizio furono solo le pagine dei social delle persone morte che, per una scelta fatta ancora in vita, continuavano ad avere una sorta di normale attività. Un software elaborava le opinioni dal possessore del profilo, le frasi pronunciate, le foto scattate, i dialoghi, le mail spedite e ricevute, gli acquisti, i libri letti. In base a tutti questi dati la pagina si aggiornava come se a scrivere fosse la persona morta, che continuava ad esistere e a interagire. Il sistema divenne sempre più potente e sofisticato, consentiva al "nuovo vivo" - la definizione scelta per questa forma di esistenza - di relazionarsi in modo sempre più incisivo con la realtà: poteva dialogare in chat, anche su fatti avvenuti dopo la morte perché il sistema, sulla base di tutte le conversazioni avvenute prima di morire, era in grado di simulare ciò che avrebbe detto di fronte a un determinato evento. Il "nuovo vivo" poteva spedire una commovente lettera di condoglianze all'amico che aveva perso il padre («io più di altri ti posso confermare che tutto non finisce con la morte») o di rallegramenti alla figlia a cui era nato un bambino («dalla foto che hai caricato sul social vedo che mi assomiglia»). Filosofi e leader religiosi si scagliarono contro questo sistema che giorno dopo giorno si moltiplicava, ma i politici, le cui campagne elettorali venivano finanziate dalla multinazionali dei social, sostennero che non si poteva limitare la libertà dei cittadini. Nel 2050 il sistema di "continuazione della vita" (un anno prima era stato proibito di definirlo "simulazione della vita") ebbe nuovi potenziamenti: chi voleva poteva consentire una elaborazione del proprio cervello e del sistema nervoso per rendere ancora più realistiche le reazioni da "nuovo vivo". Nei database furono anche immagazzinate le informazioni sui familiari. Fu introdotta questa possibilità anche per i bambini morti precocemente, che di fatto crescevano da "nuovi vivi". E mentre il numero dei "nuovi vivi" aumentava, si rafforzava la loro capacità di influenza: sempre più autonomi, queste esistenze incorporee scrivevano libri, partecipavano al dibattito politico, non di rado maturavano posizioni differenti da quelle che avevano in vita. Verso la fine del secolo fu approvata una legge che assegnò loro piena personalità giuridica, consentiva loro di mantenere il patrimonio economico che avevano accumulato da "vecchi vivi". Un gruppo di ”nuovi vivi”, molto ricchi, con un colpo a sorpresa acquisì la maggioranza della corporation a cui faceva capo il social. I ”nuovi vivi” ora erano padroni del ”nuovo mondo”. La corporation iniziò una politica di espansione più spregiudicata. Opinionisti, scrittori e da allora perfino alcuni leader religiosi cominciarono a sostenere prima in modo provocatorio, poi con convinzione, che la vita vera - l'anima fu la definizione che prese forza - era quella senza corpo dei nuovi vivi”. Quella precedente, quella corporea, era solo una fase di preparazione, un sistema di raccolta dati che avrebbe consentito di vivere in eterno, senza il fardello del corpo con suoi malanni. L'anno dopo fu eletto il primo presidente "nuovo vivo". I corporei si sentirono sempre più minoranza, la vita sociale ormai si sviluppava quasi interamente in rete. Nella vita corporea rimasero solo l’attività sessuale, necessaria alla riproduzione, e il lavoro utile al mantenimento dei sistemi di elaborazione. Nel 2110 il secondo presidente "nuovo vivo" annunciò la decisione di attaccare e distruggere con armi atomiche tutti i paesi che non avevano ancora aderito al progetto dei "nuovi vivi”, che continuano «a vivere in forma barbara, rubando preziose risorse a chi ha saputo costruire una evoluzione evidente, nei fatti, che ha salvato l'uomo dalla morte e gli ha donato l'eternità». Ai più sembrò una decisione ragionevole, gli stati in cui la maggioranza dei cittadini erano "vecchi vivi" rappresentavano il passato; allo stesso modo gli spagnoli e gli inglesi sterminarono le antiche popolazioni delle Americhe, era il momento di preparare il pianeta a un unico sistema, quello dei "nuovi vivi", alimentato per l'eternità, con la vita intellettuale e sentimentale slegata dalla parentesi della vita corporea. Ciò che i "nuovi vivi" non avevano previsto è che i conflitti di potere sarebbero esplosi anche nella rete, tra le nostre anime. Da pochi giorni è iniziata una guerra tra i primi "nuovi vivi" e quelli arrivati nei decenni successivi. Il sistema sta impazzendo, i dati si stanno cancellando e stanno morendo di fame anche i corporei. Sta finendo tutto. Sono trascorsi dieci anni: sono l'ultimo corporeo in vita, il sistema dei ”nuovi vivi” ormai è senza controllo, impazzito e anarchico. Ora tutto dipende da me: sto fissando da giorni un pulsante. Spegni e riaccendi.

mercoledì 10 giugno 2015

i corti che escono su move magazine 30/ l'amore ai tempi delle foto di carta

copia e incolla da move magazine

di Mauro Evangelisti

L'amore ai tempi delle foto di carta

Nel giorno del suo trentacinquesimo compleanno, quando ormai da venti mesi vivono insieme, Paride le dice che vuole tornare dalla moglie, è stato un errore lasciarla. Carla non lo ascolta più, sta elaborando una rapida contabilità di quindici anni di fallimenti: il fidanzato dei tempi dell’università che la lasciò mentre erano in vacanza a Santorini; il professore che la corteggiò con intelligenza e leggerezza, poi si trasformò in uno psicopatico, fu costretta a denunciarlo per stalking; l’iscrizione al sito per rimediare sesso e sentirsi meno sola, si cancellò dopo che uno le lasciò sul comodino 300 euro. Fino all’incontro con Paride, l’agente immobiliare che l’aveva aiutata ad affittare l’appartamento, che le aveva parlato per ore del suo matrimonio che si era trasformato in un incubo di inutilità, gli abbracci, le fughe, lui che lascia la moglie, l’idea di fare un figlio, la casa insieme. Ed ora Paride se ne va. In fondo l’aveva previsto. Esce dal ristorante senza dire nulla. Fuori, in un vicolo, si accascia a terra e piange. Una mano delicata sulla spalla. Alza lo sguardo, è un ragazzo, le parla con un accento inglese, un turista, le chiede se può aiutarla. Forse tutto è successo per arrivare a questa scena, all’incontro con gli occhi miti di quel ragazzo, lei gli racconta tutto, lui la butta a terra, le salta addosso, non erano occhi miti, erano da ubriaco. Gli sferra una ginocchiata, corre alla macchina e va da Raffaella, l’amica dai tempi del liceo che le chiede scusa per la confusione, ma i due figli sono dei pazzi furiosi. Ridono. Carla racconta cosa le è successo, conclude che a 35 anni è attesa da una caduta libera, da sola. «Certo che sei proprio sfigata – dice Raffaella – qualcuno deve averti lanciato una maledizione, una stregoneria…». Raffaella lo dice per allentare la tensione, ma Carla si alza, l’abbraccia e se ne va. «Devo scappare». A casa apre i cassetti, trova un vecchio album. 1998, ultimo anno del liceo, allora si stampavano ancora le fotografie. Eccolo: Edoardo, anzi Edo come lo chiamavano in classe. Ottimo giocatore di basket, non brutto, timido, ma poco interessante pensava Carla. Nessuno se ne accorse, ma per tre anni le chiese di diventare la sua ragazza; fiori, cd, inviti a cene nelle quali parlavano a lungo. Ci fu solo una volta che lo baciò. Il giorno dopo Edo andò a cercarla a casa, con un regalo. Lei si era pentita di quel bacio: «Ieri ho fatto una cazzata.
È meglio se non ci vediamo più da soli». «Ma io ti amo». «E io no, cosa ci vogliamo fare?». Lui si voltò per nascondere le lacrime, si avvicinò al cancello poi le puntò il dito: «Tu non sai amare chi ti ama, infelice, sempre. Non troverai la persona giusta, non la sai riconoscere. Ti piace solo la merda e sarà sempre così. Tra quindici anni ti ricorderai di queste parole». Edo cambiò scuola. Non lo vide più. In meno di trenta minuti, incrociando amicizie comuni, profili Facebook, numeri telefonici in rete, Carla trova l’indirizzo di Edo. Scopre che ripara le caldaie, che è single, che ha militato nel Movimento 5 Stelle ma poi ha litigato con gli altri attivisti. «Lo stesso brutto carattere», pensa. Carla va a casa sua, suona, una, due, tre volte. Si presenta un tipo con i jeans, la maglietta con il nome della ditta di caldaie, la pancia, la barba lunga, capelli spettinati. «Se è per la caldaia deve passare in ufficio. Che è sempre qui, ma oggi non lavoro». «Edo, sono Carla, ti devo parlare». A lui casca la mela che ha in mano. La fa entrare e Carla vede quotidiani per terra, piatti e panni sporchi. «La donna delle pulizie viene domani». «Non importa. Ti devo chiedere un favore: annulla la maledizione». «Hai la caldaia rotta?». «No, cazzo, la maledizione, la frase che mi dicesti quindici anni fa, che mi sarebbe andato tutto male con gli uomini e che mi sarei ricordata di quello che stavi dicendo. Beh, sta succedendo. Te lo chiedo con il cuore in mano, ti pago: se era una maledizione, annullala, perché sta funzionando». Carla piange, quanto è stupido ciò che sta dicendo.
Edo gelido: «Ti sembra che a me le cose siano andate meglio? Mi vedi? Dimostro dieci anni di più, guarda in che appartamento vivo. E tutto perché sono ancora convinto che quella fosse la nostra occasione e non ne avremo un’altra. Vattene, è stata tutta colpa tua». Carla emette un ultimo singhiozzo, apre la porta. «Fermati, fermati – le dice lui – senti, io ti amo ancora e ti amerò sempre. Non voglio il tuo dolore. Magari è una cosa stupida, ma se ti può servire, beh, lo dico: ti tolgo la maledizione, sarai felice, incontrerai l’uomo giusto». Carla sussurra «grazie» e va via. Edo si siede sul divano, accende la tv, su Sky Sport ci sono le semifinali dell’Nba, piange, come non aveva mai fatto da quindici anni. Di nuovo il campanello. Apre, è Carla. Lo abbraccia, lo bacia, lo trascina fino al divano, sembrano due diciottenni. La maledizione non c’è più, Carla ha riconosciuto l’uomo giusto. Pare.

venerdì 29 maggio 2015

Boccea e dintorni


di Mauro Evangelisti

Tra i tanti cartelli apparsi dopo l’incidente mortale di Boccea provocato da tre rom in fuga dalla polizia, ce n’è uno che sta girando molto sui social netowrk (in casi così su Facebook e Twitter si scatena l’inferno, scompaiono gattini e tramonti, appaiono le tribù con i colori di guerra): «E adesso ditelo alle famiglie che state lavorando per l’integrazione». Certo, chi l’ha scritto è in buona fede. C’è solo un problema: Corazon, la signora filippina morta, stava costruendo una vita migliore insieme al marito per le figlie proprio grazie al valore dell’integrazione. E dell’accoglienza (sì, di questi tempi sembra una parolaccia ma per rispetto della memoria di Corazon anche questo sostantivo va scritto). Se non ci fossero state integrazione e accoglienza, Corazon non avrebbe potuto lottare per una vita migliore in Italia e mandare aiuti ai parenti nelle Filippine. La risposta di molti è che bisogna anche parlare di chi rifiuta di integrarsi, di chi respinge regole e leggi della nostra società. Verissimo. E tanti errori sono stati commessi: soldi buttati, ingenuità, molti, come dimostra l’inchiesta su Mafia Capitale, hanno lucrato su tutto questo. Ma dovremmo essere maggiormente orgogliosi dei valori che Roma e l’Italia, pur tra mille disagi, errori e fallimenti ha provato a difendere. E nonostante tutto ci prova ancora. C’è un rom che è scappato, ma ci sono tanti stranieri come Corazon che amano l’Italia e che hanno imparato a rispettarla. Retorica? Perché gli slogan di chi semina odio sono originali?

mercoledì 27 maggio 2015

i corti che escono su move magazine 29/ bailando

copia e incolla da move magazine

di Mauro Evangelisti

Bailando

L’idea era stata di Sandro ma questo Andrea alla madre non l’aveva detto, lo avrebbe accusato di lasciarsi sempre convincere dagli altri quando c’era da fare una sciocchezza. «In Thailandia? Ma stiamo scherzando. Con tutte le guerre che ci sono per il mondo, il terrorismo, gli aerei che cadono, tu dove pensi di andare a 20 anni? Non se ne parla». Andrea era diventato rosso in volto, ma molto rosso, come sempre succedeva quando litigava con la madre. Era l’effetto di uno scontro che divampava dentro: una parte di lui avrebbe voluto rassicurare la madre, dirle che aveva ragione, che non sarebbe andato, che non l’avrebbe fatta soffrire, che per tanti anni erano stati solo lui e lei, visto che il padre era come se non esistesse; ma era anche furioso perché si sentiva legato indissolubilmente alla madre, avvertiva che non si sarebbe mai liberato e invece voleva correre, anche se non sapeva dove. Un tempo la prima parte di lui vinceva quasi sempre, ora l’equilibrio stava cambiando. «Io vado – disse con una determinazione nuova che spaventò e rattristò la madre – i soldi non me li devi dare tu, vado a lavorare per un po’ prima dell’Università». Alla fine erano stati i genitori di Sandro, che da sempre viaggiavano in ogni spicchio del mondo con il figlio, a rassicurarla: «Sono due ragazzi con la testa sulle spalle. Sono posti sicuri, stia tranquilla, ci siamo stati tante volte. E poi esistono i telefoni, Skype… vedrà, Andrea lo sentirà tutti i giorni. Ma è giusto che imparino a viaggiare da soli». La madre di Andrea sapeva che avevano ragione, ma faticò a tranquillizzarsi. Non consentì al figlio di andare a lavorare, fu lei a dargli i soldi. Andrea ringraziò con un grugnito, umiliato per quell’azione di supporto dei genitori di Sandro. All’aeroporto era rimasto immobile nell’accogliere il suo abbraccio, mentre il padre di Sandro gli aveva mollato uno scappellotto pure a lui, scherzando «non più di tre birre al giorno». In aereo Sandro lo aveva rimproverato: «Certo che potevi essere un po’ più gentile con tua madre. Non ti vedrà per due settimane». «Mi sono rotto. Come se avessi ancora 8 anni… Non potrò restare con lei per sempre». «E dai, sei il suo unico figlio, è normale». «Guarda, appena posso vado a vivere da solo». «Sì, vabbè…».
Durante la vacanza non ne avevano più parlato, c’erano troppe esperienze da fare, vicoli e stradoni di Bangkok da percorrere come padroni del mondo, tenendo dentro il timore di un luogo sconosciuto: odori strani, il caldo che ti picchia, le urla in una lingua strana, i cocktail nuovi da provare, le discoteche in cui conoscere ragazze australiane, la Lonely Planet da studiare, per decidere la prossima tappa, tra Krabi e Phuket. Optarono per la spiaggia di Ao Nang, a Krabi, e per una settimana erano state altre birre, escursioni in barca da una isoletta all’altra. «Potrei restare qui per sempre» disse un giorno Andrea steso in spiaggia, vicino un libro di Stephen King. Gli unici momenti di tensione c’erano attorno alle 2 del pomeriggio, per la ricerca di una rete wi-fi decente perché Andrea potesse collegarsi a Skype e telefonare alla madre. La linea era disturbata, lei non sentiva, lui si innervosiva, ripeteva «qui va tutto bene», ma era infastidito perché era come se tutta la giornata della madre ruotasse intorno a quella telefonata. «Ma perché non si accontenta di WhatsApp come i tuoi genitori?» si lamentava con Sandro.
La penultima sera l’amico vomitò a causa di una sbornia e restò in hotel. «Tu vai, tranquillo». Andrea ormai sapeva dove trovare i locali migliori, dove c’era la musica dal vivo o un biliardo per sfidare qualche thai. Si fermò al Chang, un bar dove si ballava, vide una ragazza thailandese che tutte le mattine gli preparava il caffè allo Starbucks, le offrì uno shot di tequila, e ancora birra e poi birra. Il suo sorriso gli era piaciuto sin dal «here or take away?» del primo giorno. Tutto perfetto, poi il dj mise una vecchia canzone di Enrique Iglesias, Bailando. Tutti iniziarono a dimenarsi, lui invece sentì, improvvise, affiorare le lacrime. Era la canzone preferita di sua madre, ricordò quel rituale di lei che ascoltava per caso brani nuovi e gli chiedeva di scaricare gli mp3 sul tablet; «sei proprio una palla» le diceva lui, ma in fondo gli faceva piacere. Bailando era la canzone che la rendeva più allegra, la metteva a tutto volume, a volte la ballavano insieme. Chiese la password per il wi-fi a un cameriere, provò a collegarsi su Skype per chiamarla, ma la rete era scadente. La thailandese lo vide in lacrime, come un bambino. «Sei sbronzo?». Sì, un po’ era sbronzo, altrimenti non le avrebbe confidato: «Vorrei telefonare a mia madre ma Skype non funziona e non ho credito nel telefono». Lei gli allungò il suo telefonino. «Usa il mio, tranquillo, poi mi offri una birra». La madre si preoccupò quando vide apparire quel numero sconosciuto, fu però felice di sentire Andrea che le spiegava che stava bene, che la vacanza era finita, che stava per tornare, che lì era tutto bellissimo, che sentiva la sua mancanza.

domenica 17 maggio 2015

i corti che escono su move magazine 28/ un eroe dei nostri tempi

copia e incolla da move magazine

di Mauro Evangelisti

Un eroe dei nostri tempi


Ho sentito l'aria muoversi, la pallottola accarezzarmi un braccio, ho capito che dovevo correre e saltargli addosso prima che sparasse un'altra volta. Ho sperato che non mirasse al bambino, che la gente dentro al centro commerciale fosse riuscita a mettersi al riparo, «correte via» avevo urlato, quando avevo visto il tizio puntare la pistola e iniziare a sparare alla cieca. E poi ricaricare e poi sparare ancora. Qualcuno doveva fermarlo, e io sono un agente della vigilanza del centro commerciale. C'era un gruppo di bambini, sono corso, ho urlato, ho sentito la carezza della pallottola, e alla fine gli sono saltato addosso e quasi l'ho schiacciato con il mio peso. La pistola è schizzata via, l'ho tenuto fermo. Ci sono stati venti secondi di silenzio, poi prima piano, infine scrosciante, c'è stato un applauso. Ero un eroe. Qualcuno aveva ripreso tutto con un cellulare, il video è stato trasmesso anche dalla Cnn. Per tre giorni ho dovuto parlare di fronte alle telecamere, rispondere alle telefonate dei giornalisti, stringere la mano al sindaco che mi ha premiato, incontrare il primo ministro che mi ha detto «il paese per rialzarsi ha bisogno di persone come lei». Quando andavo al bar a prendere il caffè gli altri clienti mi stringevano la mano, quasi commossi. Io non avrei voluto tutta questa luce su di me, avrei voluto solo partire per le ferie come era già stato programmato prima che tutto accadesse, ma i capi della società di vigilanza e quelli del centro commerciale mi avevano spiegato che non potevo tirarmi indietro. La società di vigilanza e il centro commerciale erano entrambi in crisi, con la pubblicità che questa storia stava regalando avrei salvato molti posti di lavoro, mi dicevano. E io non me la sono sentita di dire no. Un giorno un giovane politico della minoranza del Pd con la erre moscia ha detto in TV «il sindaco non si faccia strumentalizzare da una guardia giurata in cerca di pubblicità», una giovane politica di destra ha detto in TV «la guardia giurata non si faccia strumentalizzare dal sindaco». E l’indomani sulla prima pagina della cronaca cittadina di un quotidiano è apparso il commento di un giornalista: «Ma si può dire che non ne possiamo più del presenzialismo della guardia giurata? Questa città non ha bisogno di eroi, ma di persone che lavorino in silenzio, apprezzando la bellezza dei suoi tramonti». Non ho capito cosa volesse dire. Su Facebook ho cominciato a notare le prime frasi strane «basta con questo cavolo di vigilante», «ma voi pensate che sia davvero una storia vera? Il centro commerciale stava per fallire, hanno inventato tutto», «è stato un incosciente, se quello avesse sparato ai bambini?». All'ultimo post ho risposto. Ho scritto: «Ma che cazzo dici? Quello STAVA per sparare ai bambini». Il mio capo si è infuriato, «non devi usare quel linguaggio». Su Facebook molti mi difendevano, ma i messaggi cattivi aumentavano, se prima erano 95 a mio favore e 5 contro, ora erano 60 e 40. «Si è montato la testa». Io in realtà avrei semplicemente voluto che non si parlasse di me. Un giorno mi ha aspettato fuori da casa di mia madre un comico di un programma satirico, ha cominciato a inseguirmi con il microfono, chiedendomi se fosse vero che era tutta una messinscena per salvare il centro commerciale, io sono scappato perché non ne potevo più di rispondere alle domande e perché mi cresceva la rabbia, mi sentivo insultato. Ma lui mi ha rincorso al bar, perfino al gabinetto, alla fine gli ho risposto, ma nella foga ho sbagliato un congiuntivo. Il programma ha mandato in onda il mio errore, con le risate finte sotto. Su Facebook tutti lo hanno condiviso. Paola, la mia fidanzata, mi ha lasciato, un po' perché la nostra storia era già zoppicante, un po' perché non sopportava il casino che ci perseguitava quando uscivamo insieme. Il mio capo della società di guardie giurate mi ha preso da parte, mi ha detto che al centro commerciale non potevo più lavorare perché tutto stava diventando molto imbarazzante, non se la sentiva di mandarmi via ma mi ha chiesto di cercarmi un altro posto. Un giorno un ragazzo con il codino, vicino al negozio di telefonini del centro commerciale, ha cominciato a urlarmi «ma guarda sta merda di violento che stava per fare uccidere i bambini, a Rambo tornatene a casa», la gente che passava restava indifferente, ma qualcuno ha detto che il tipo aveva ragione. Un altro si è messo a riprendere con l'iPhone la scena, io sono divenuto rosso in faccia e l'ho spinto a terra. La sera stessa anche quel video era ovunque: su Facebook, sui siti Internet, al telegiornale. La domenica, in un programma di un network privato, una presentatrice illuminata come fosse la Madonna mi ha insultato, ha detto che avrei dovuto chiedere scusa e che anche il sindaco avrebbe dovuto vergognarsi per avermi premiato. Sullo sfondo c'era la mia foto gigante e la scritta "Finto eroe". Il giorno dopo il mio capo mi ha spiegato che non poteva più difendermi. Sono finito a fare il guardiano in questo quartiere industriale. La notte lavoro, il giorno dormo, e la mia vita è tutta qui. Ora capisci perché, quando ti ho sorpreso mentre aprivi la cassaforte di questa fabbrica e mi hai offerto, quasi piangendo, di fare a metà, ti ho detto di sì?

sabato 25 aprile 2015

i corti che escono su move magazine 27/ applausi

copia e incolla da move magazine

di Mauro Evangelisti


Applausi
Il carabiniere lo guarda annoiato. Patente e libretto. Paolo deglutisce, avverte l'amaro rancido dell'alcol, spera che la pattuglia non abbia l'etilometro. Ma il panico sale perché non sa dove i genitori tengano il libretto. E non può telefonare ai suoi perché non sanno che ha preso la loro macchina. Lo credono impegnato a studiare per l'ultimo esame prima della tesi di laurea. I suoi sono a Salerno, ai funerali di uno zio. Il padre non gli avrebbe mai permesso di prendere la sua auto, ma Paolo agli amici, e soprattutto a Flavia, voleva mostrare la Bmw, non la Panda. Immenso casino, pensa. Apre il cassetto laterale: vuoto. Panico, suo padre lo tiene in casa e lo prende solo le rare volte in cui esce con la Bmw. Panico vero, l'alcol gli impedisce di dire cose sensate. Passa una Golf nera, veloce, il carabiniere sì volta, la vede sbagliare la curva, sbandare, finire contro un muretto. Prenda, vada, dice a Paolo. Chiama un'ambulanza, urla al collega. Paolo torna a casa, vomita. Sei mesi dopo Paolo alza un calice con lo spumante, il padre gli stringe la spalla con una mano tenaglia. La mamma ride, una decina di parenti applaude. «A mio figlio, il futuro avvocato, mica un muratore come me». A bassa voce una cognata a un'altra cognata: «Muratore? Ha costruito mezza città». «Sarà pieno di soldi, ma muratore rimane; il figlio no, il figlio è un'altra pasta, diventerà un avvocato di quelli tosti». Le due cognate tacciono per ascoltare il padre di Paolo: «Mi hai fatto solo un torto, impedirmi di assistere alla discussione della tesi». «Ma babbo ti facevi 500 chilometri per nulla». «La verità è che 'sta timidezza la dovrai superare quando sarai un grande avvocato. Per quello che so io, potrebbe essere che neppure ti sei laureato». Il padre ride, la madre ride, i parenti ridono, Paolo ride. Perché spiegare che non ha mai tentato neppure un esame?
Dieci anni dopo Paolo guida l'impresa del padre. I genitori sono morti da sei anni. Paolo guarda negli occhi una giornalista: «Falliti? Crisi? Ma chi le passa queste informazioni? Gli stipendi questo mese non sono stati pagati per un disguido nel trasferimento dei fondi e tra una settimana sarà tutto sistemato. Anzi, concederò un premio ai dipendenti, per la pazienza che hanno avuto. Questo lo vede? È un contratto firmato in Spagna per la costruzione di un ponte. È un'opera da cento milioni. Siamo in una città di provincia, piena di invidia». «Dottore, da sei mesi i dipendenti non ricevono lo stipendio. E le banche le hanno chiuso i rubinetti». «Meschinità, io lavoro con banche internazionali. Ha visto il video dell'altro giorno dei lavoratori che mi applaudivano, quando ho detto loro che stavano partendo i bonifici? Ma lo vede questo contratto?». «Sembra un'opera importante». Se la giornalista guardasse con più attenzione, vedrebbe che Alicante è scritto con due elle e che si tratta di un testo tradotto con Google translate. Paolo stringe la mano alla giornalista, con la vecchia Bmw lasciatagli dal padre raggiunge l'aeroporto. I pochi soldi rimasti sono in Brasile. Chiama Samanta, l'ex segretaria per la quale ha lasciato la moglie e con la quale quattro anni fa ha avuto un figlio. «Tesoro, sì lo so, dovevo passare ieri, ma il lavoro... Senti vengo domattina, prepara Giovanni, andiamo a Parigi, a Disneyland. Non scherzo, voglio trascorrere un po' di tempo con voi». Paolo spegne il cellulare, l'aereo sta per decollare. Verso Rio de Janeiro.
Quindici anni dopo Paolo torna in città. Molti lo hanno dimenticato, i vecchi dipendenti si sono messi il cuore in pace. Giovanni ha 17 anni e gioca come terzino nelle giovanili della squadra cittadina, che però ha finito i soldi. La prima squadra è in Lega pro, ma non riuscirà a iscriversi al Campionato. Paolo racconta a Giovanni, a cui non aveva mai parlato, a Samanta e ai vecchi amici che in Brasile l'economia è un treno, che in Italia se ne andava tutto in tasse e là invece è milionario. «Tranquilli, la squadra la prendo io, la porto in A in tre anni». Tre mesi dopo, il campionato sta per cominciare, Paolo ha preparato uno squadrone. In città c'è chi dice che ha rifilato solo assegni a vuoto. Lui ride, pensate sia facile trasferire in poco tempo molti soldi dal Brasile? Venite domenica al teatro, presento il nuovo colpo, il brasiliano, quello che quattro anni fa giocava in nazionale, è un mio amico. Al teatro ora c'è tutta la città. La stella brasiliana non è arrivata e Paolo sa che non arriverà mai, non ci ha mai parlato in vita sua. Sa che non ha un più un euro neppure in Brasile, sale sul palco con il microfono in mano, tutti lo applaudono. Come Flavia quando vide la Bmw, come i parenti alla festa di laurea, come i dipendenti quando disse che erano partiti i bonifici, come Samanta quando le disse che andavano a Disneyland, come il figlio quando gli ha annunciato che comprava la squadra. Vive per questi applausi. Ora deve dire qualcosa, spiegare perché la stella brasiliana non c'è. Paolo spera sempre che una Golf finisca contro un muretto.

lunedì 30 marzo 2015

i corti che escono su move magazine 26/ una brutta giornata

di Mauro Evangelisti 

Una brutta giornata 


Quando l'auto si è fermata, senza neppure starnutire, nel mezzo del nulla, ho pensato: non è possibile. Gli 82mila euro pagati rendevano irrealistico che morisse dopo neppure trecento chilometri. Pensare che questo viaggio non lo dovevo fare, che mi serviva solo a vincere la tensione e a godermi la macchina nuova. E ora cammino verso la cittadina più vicina perché siamo talmente lontani da tutto che nessuno ha mai pensato di portare da queste parti il segnale del cellulare. Cammino da 20 chilometri e, se i miei calcoli sono giusti, ne dovrò percorrere altri 20. Ma che altro potevo fare? In un'ora di attesa, in questo buco del culo tra sassi e sparuti alberi malconci, non è passato nessuno. Ed ecco, improvvisa, imprevista, la pioggia, prima lenta, poi rapida e copiosa. Non c'è nulla sotto cui ripararsi, non ho nulla con cui ripararmi: ho lasciato l'impermeabile e l'ombrello in macchina. Avanzo come un fantasma dal nulla verso il nulla con le scarpe italiane di cuoio e il completo grigio confezionato da un sarto tronfio di Hong Kong. Urlo, bestemmio. La pioggia risponde e diviene più violenta: un bombardamento, così non l'avevo mai vista. Non so se fermarmi o continuare a camminare, entrambe le scelte sono sbagliate. Come diavolo ho fatto a cacciarmi in questo guaio, «in un modo o nell’altro ne uscirai - mi dico - e tra un mese riderai di tutto questo».

Sento un rumore, un rombo che sovrasta perfino lo scroscio dell’acqua. Mi volto e vedo dei fari, è un camion, corre, forse sono salvo. Mi giro, agito le braccia, grido, ma temo di apparire pazzo, mostro che sono solo una brava persona nei guai. Il camion non rallenta e mi supera. «Figlio di puttana» urlo. Il camion inchioda, anche se fatica a fermarsi sull'asfalto bagnato, fa marcia indietro. Malgrado la pioggia, si abbassa il finestrino dalla mia parte. Al volante vedo un cumulo di carne tatuata, una faccia grande il doppio della mia, i capelli bianchi legati a coda di cavallo. Forse sono nei guai più di prima. Molto più di prima.
Dieci minuti dopo cambio idea. Sono seduto al fianco della massa di muscoli tatuata e lui mi parla con una voce di velluto, quasi dolce. Mi spiega che non mi aveva visto, si scusa per aver tirato dritto, mi dice che non può tornare indietro a trainare la macchina ma sicuramente nella cittadina qui vicino troverò aiuto, anche se lui va di fretta e dovrò arrangiarmi. «Non importa, basta che arrivo dove ci sono segni di civiltà» gli dico. È in quel momento che sento una specie di rantolo, un lamento, «aiuto» decifro. Il tipo al mio fianco fa finta di nulla, io mescolo il sudore con l'umidità che ha intriso i miei vestiti. Taccio. Con la coda dell'occhio distinguo un fucile dietro il suo sedile. Il lamento ora diviene più forte. «Aiuto». Impossibile ignorarlo. «Ti devo spiegare» mi sussurra il tipo. «No, tranquillo, a me basta che mi lasci scendere in città, non mi devi dire nulla». «Dietro sono due, pensavo fossero entrambi morti. Gli ho sparato». Deglutisco. Lui continua: «Quando sono tornato nella mia fattoria, li ho sorpresi, erano in tre. Stavano violentando mia figlia. Ha solo sedici anni. Avevo il fucile da caccia con me, ho sparato. Tu cosa avresti fatto?». Non rispondo. «Uno è riuscito a scappare, gli altri due sono dietro. Sto andando in città a portare i cadaveri e a consegnarmi allo sceriffo. Non sono una cattiva persona, io». Sì, non è la mia giornata fortunata. Ora ha cessato di piovere. Gli sto per dire semplicemente «fai quello che devi fare» quando un'auto ci affianca. Da lì qualcuno spara, s’infrange il finestrino di sinistra, «abbassati, è il terzo delinquente, quello che era riuscito a scappare» mi urla il tatuato. Accelera, ma l'auto è più veloce, ci taglia la strada, il tipo però perde il controllo, il camion si ribalta. Ci ritroviamo tutti fuori, per terra: io, il tatuato che ha fatto in tempo a prendere il fucile, il cadavere, e l'altro moribondo, che è quello che provava a chiedere «aiuto». Dall'auto invece esce un ragazzo piccolo e dal naso a becco d'aquila. «Brutta merda, hai ucciso i miei fratelli» grida. Avanza, con il braccio teso e la pistola in mano. Mi vede: «E questo chi è? Questa merda ti ha aiutato?». No, non è la mia giornata fortunata. Sto per gridare che non c'entro nulla, ma il tatuato, che aveva nascosto il fucile sotto il corpo, spara e sorprende il ragazzo, che però risponde al fuoco quasi allo stesso istante. Il tipo viene colpito vicino al cuore e si sgonfia, la testa del ragazzo esplode come un cocomero. La pistola vola in aria e finisce a pochi centimetri dal moribondo che ha la forza di afferrarla e puntarla verso di me. L'avevo capito che non era la mia giornata fortunata. Questa volta è finita. Sento il rumore dello sparo, ma è il fucile del tatuato che con le ultime forze, prima di crollare, ha ucciso il moribondo. Questa volta, sì, è davvero finita. Mi alzo, mi guardo intorno. Recupero il fucile, perché non vorrei che a qualcuno venisse in mente di resuscitare, visto che non è il mio giorno fortunato. Sento il rumore di una macchina, mi volto, è una donna sceriffo dai fianchi molto larghi e la pistola in mano che mi intima di buttare il fucile. Obbedisco. Mi guardo intorno: ci sono quattro cadaveri e io fino a pochi secondi fa avevo un fucile in mano. Servirà molto tempo per dare spiegazioni e da queste parti non amano le lunghe chiacchierate. Ricomincia a piovere. 

sabato 21 marzo 2015

i corti che escono su move magazine 25/ Al centro commerciale

copia e incolla da move magazine

di Mauro Evangelisti

Al centro commerciale
Il vecchio mondo, quello che fino a sei mesi fa, prima del grande crollo, era la normalità, ora a Franco sembra un'ombra lontana. Se non ci fossero gli scaffali dell'ipermercato per metà ancora ricoperti di prodotti, se non ci fossero i marchi che avevano scandito la sua vita, ora sarebbe convinto che era stato tutto un sogno. La luce del sole entra dai finestroni e Franco passeggia nei corridoi di quello che un tempo era il punto di incontro di famiglie, ragazzi, anziani che non sapevano come trascorrere la giornata. E allora andavano al centro commerciale a cercare felicità sottovuoto. Vedere ancora la merce sugli scaffali lo rassicura, soprattutto gli alimentari in scatola che hanno date di scadenza molto lontane. Essersi rifugiato dentro il centro commerciale è stata la sua salvezza: fuori, lontano, bande di disperati si fronteggiano per accaparrarsi il cibo o semplicemente per sfogare la rabbia per tutto ciò che hanno perduto. Franco si è nascosto nel centro commerciale, ha chiuso le porte, pazientemente ha portato fuori tutti i prodotti deperibili che avrebbero reso l'aria irrespirabile. Esce ogni tanto, timoroso che qualcuno scopra il suo regno dove il vecchio mondo ha lasciato ancora un patrimonio di viveri che, per una sola persona, potrebbe durare diversi anni. Nel reparto di elettronica ha trovato anche un lettore dvd che funziona con le pile, così ogni tanto può guardare qualche vecchio film, alternandolo ai romanzi che preleva dalla libreria nel lato nord del centro commerciale.
Successe tutto all'improvviso, racconta Franco a un piccolo registratore a batterie, uno degli ultimi ancora in vendita perché era tra gli oggetti che stavano scomparendo. Vuole lasciare una testimonianza, ma soprattutto vincere la solitudine. La crisi, inizia scandire Franco, stava avanzando, perfida, in tutto il mondo, proprio mentre ci sentivamo invincibili, perché le macchine, i mezzi di comunicazione, internet, la possibilità di dialogare in tempo reale con chiunque in ogni parte del pianeta, ci faceva credere di vivere in un mondo magico. Ma, senza che ne capissimo i motivi, l'economia artificiale che avevamo costruito, fatta di convenzioni e numeri virtuali nei database, implose. La rabbia delle persone si sfogò contro politici e banche, ma questo accelerò la crisi, perché tracimò l'incertezza, e il cosmo che avevano costruito non poteva permettersi l'incertezza, era una ramificata convenzione, una sconfinata finzione globale che poteva reggere solo se tutti stavano al gioco. Un giorno in Europa e negli Stati Uniti ci furono assalti agli istituti di credito, i sistemi che regolavano i trasferimenti di valuta furono compromessi. Si sfaldò la fiducia nella moneta: banconote e carte di credito non rappresentarono più nulla. Si tornò al baratto, il denaro o i numeri che comparivano negli estratti conto persero significato. Non si potevano più pagare gli stipendi, i servizi pubblici si fermarono, polizia ed esercito si frantumarono, nessuno governava più le nazioni occidentali. Ma poiché era tutto collegato, poiché ogni economia si basava sull'altra, il terremoto colpì tutto il pianeta, che da sei mesi, ora, vive una diversificata anarchia, una diffusione vorticosa di povertà, perché nessuno produce più beni e servizi, e di violenza: è saltato ogni ordine. Non so cosa stia succedendo nel resto della mia nazione - prende fiato Franco prima di proseguire - non esistono più mezzi di comunicazione, non viene prodotta energia e dunque non ci sono più tv, radio e internet. So solo che i più violenti hanno formato delle bande che vanno alla caccia dei più deboli, li schiavizzano, violentano le donne. Io sono fortunato, perché nessuno ha avuto la mia idea: rifugiarsi in un centro commerciale. Qui potrò resistere alcuni anni, anche se non capisco il senso di una vita come questa. Franco spegne il registratore, si guarda intorno e decide di cambiarsi vestiti. Entra in un negozio di abiti firmati per ragazzi e si prende un nuovo modello di jeans a vita bassa e una t-shirt. Ha trentacinque anni e quando il vecchio mondo è crollato era un insegnante di inglese, senza una moglie, senza figli e senza una vita che lo soddisfacesse. Non è cambiato molto da allora, visto che il tempo libero lo trascorreva al centro commerciale. È un tipo pacifico, se una delle bande dovesse trovarlo non avrebbe scampo. Percepisce un rumore, qualcuno sta entrando. Il rifugio è stato scoperto. Ansima, sente dei passi. Aveva nascosto un’ascia in un trolley. La prende, non può restare nell’ombra per sempre. Meglio farla finita. Esce dal negozio, si ritrova nella galleria centrale, tenendo l'ascia con due mani. Sente gli intrusi camminare dietro l'angolo, corre verso di loro, urla, e solleva l'ascia pronto a colpire. Poi li vede: sono tre bambini denutriti, arrivati lì chissà come. Si ferma. Appena in tempo.

lunedì 2 marzo 2015

i corti che escono su move magazine 24/ cosa è giusto

copia e incolla da move magazine

di Mauro Evangelisti

Cosa è giusto


Irina segue con lo sguardo Francesco che corre sul campo da calcio, urla come qualsiasi altro bambino, anche se a undici anni, lo sa bene anche lei, bambino più non è. L'allenatore le ha spiegato che ha talento, è forte fisicamente, che per ora si diverte, ma chi lo sa, promette bene. A Irina non interessa, è già importante vederlo correre, urlare come qualsiasi altro bambino. Undici anni fa, quando decise di parlare a un poliziotto italiano dal viso tenace, non era così sicura che ce l'avrebbe fatta, che il bambino sarebbe nato, che l'organizzazione non l'avrebbe trovata e uccisa. Oggi a vedere la partita è venuta anche Sofia, la figlia di quel poliziotto che l'aiutò a uscire dalla prigionia del racket della prostituzione. Una delle ragioni per cui lui si batté tanto per salvare Irina, incinta e disperata, è che anche sua moglie era al secondo mese. Oggi Sofia e Francesco sono amici inseparabili e, anche se non l'ammette neppure con se stessa, Irina è perfino un po' gelosa di lei. Urla, tutti in tribuna si alzano in piedi e applaudono, il padre del portiere della squadra di Francesco, si volta e quasi la strattona: «Signora, ha visto che razza di gol ha fatto suo figlio? Da trenta metri, a undici anni...». Irina sorride, timida, anche dopo undici anni non si è abituata a complimenti e gentilezza, per troppo tempo la sua vita è stata sofferenza, umiliazione e botte. Poi un giorno è come se a Irina dessero un calcio allo stomaco simile a quelli che gli sferrava il capo dell'organizzazione. Mentre sta stirando le camicie dell'avvocato per il quale lavora, Francesco è apparso dal nulla, cupo come non era mai stato, l'ha fissata, e stringendo in pugni, le ha chiesto: «È vero? Perché non me l'avevi mai detto?». «Di cosa stai parlando?». Il ragazzino le ha allungato un foglio stampato dal computer, una mail inviata da un indirizzo che Irina non conosce. C'è scritto: «È giusto che tu lo sappia, tua madre prima che tu nascessi era una prostituta, anche se per garantire una vita migliore a te che stavi per nascere ha avuto il coraggio di denunciare i suoi sfruttatori. Dovresti essere fiero di lei». Non c'è nessuna firma. Irina trema, non trova la forza di reagire, va in camera a piangere anche se capisce che questa è la cosa sbagliata. Francesco non riesce ad essere fiero di lei, anche se sa che sarebbe la cosa giusta. «Perché mi hai sempre detto che mio padre era morto prima che tu venissi in Italia?» urla. Sono le ultime parole che pronuncia per una settimana. Non va più a giocare a pallone, a scuola gli insegnanti non lo riconoscono.Irina non comprende chi possa essere stato tanto crudele da inviare quella email a Francesco. Forse qualcuno dell'organizzazione ha voluto vendicarsi? O magari Tobia, il poliziotto, per un incomprensibile motivo, magari pensando di fare il meglio per il bambino? In realtà solo lui, in città conosce la verità. Irina lo chiama al telefono, gli dice che è stato un verme, che non ne aveva diritto. «Ma di cosa stai parlando Irina? Non capisco, davvero. Cerca di spiegarti». Irina interrompe la telefonata, si vergogna di avere dubitato di Tobia, l'uomo a cui deve la vita e quella di Francesco. Una settimana dopo Sofia va a trovare Francesco che quanto meno ora comunica a monosillabi con Irina. Il giorno prima le ha detto: «Comunque io ti vorrò sempre bene, tantissimo». E poi è arrossito e si è chiuso in camera. Irina pensa: sta soffrendo molto, troppo, non perdonerò mai chi gli ha causato tanto dolore.Sul tavolo della cucina c'è lo zaino di Sofia, Irina lo sposta, cade un libro, un romanzo, e si apre su una pagina piegata. C'è una frase evidenziata in azzurro e sottolineata anche a penna, come se Sofia avesse riflettuto a lungo su quella frase. Irina la legge: "Nella vita per essere felici è meglio conoscere tutta la verità? Ed è vera felicità quella che è costruita su alcune menzogne, su alcune notizie che qualcuno ci ha celato?". Capisce: non è stato Tobia a inviare quella email, ma Sofia. Non riesce ad odiarla.Il giorno dopo Francesco torna ad allenarsi, Irina si sente meglio. Suonano alla porta, lei apre distratta ed arriva un calcio allo stomaco, questa volta è vero. Distingue la testa pelata e il tatuaggio: un teschio. È lui, l'ha trovata. Vede il coltello, sa che sta per finire tutto. Chi penseIrà a Francesco? Poi sente il tonfo e un urlo, quasi contemporanei, vede Tobia che è entrato dalla porta lasciata socchiusa e ha colpito, appena in tempo, il tatuato. Le ha salvato di nuovo la vita. Mentre i colleghi portano via il tatuato, Tobia dice a Irina: «Ero venuto a chiederti spiegazioni, non avevo capito la telefonata che mi avevi fatto la settimana scorsa, ero preoccupato». Irina sorride, lo abbraccia, non era niente, gli risponde. Riflette: se Sofia non avesse inviato l'email a Francesco, lei non avrebbe fatto quella telefonata stupida a Tobia, Tobia non sarebbe venuto a chiederle spiegazioni e il tatuato l'avrebbe uccisa. Sofia, in fondo, le ha salvato la vita.

giovedì 19 febbraio 2015


i corti che escono su move magazine 23/ forever young

copia e incolla da move magazine 

di Mauro Evangelisti 



Forever young


«Giulio, perché non cessi questa commedia?». Anna, con le lacrime che seguivano le rughe da settantacinquenne, afferrò le spalle del figlio. Giulio non reagì e disse solo: «Non lo capisci che siete tutti su un treno che corre verso un muro? Io sono sceso prima». Anna urlò «basta», intervenne la dottoressa Carla, la fermò, quasi l'abbracciò. «Anna, non serve. È un lungo percorso quello che stiamo facendo con Giulio». «Mi calmo». Giulio le prese la mano : «Ha ragione la dottoressa, non devi fare così. Io ti voglio molto bene».
Fuori, camminando verso il parcheggio, Anna si chiese perché avesse perso il controllo, forse era perché Giulio stava per compiere 50 anni. Ripensò al passato. Con l'aiuto della dottoressa Carla aveva imparato a convivere con la follia del figlio. Era cominciato tutto 15 anni prima: Giulio divenne strano. Fino ad allora gli si poteva solo imputare l'incapacità di gestire rapporti duraturi, era molto attraente e cambiava ragazze spesso. «Pensare - diceva la madre - che al liceo era timidissimo, erano gli anni della malattia del padre». Giulio a 35 anni cambiò: un nuovo taglio di capelli, abiti da teenager, la passione per musicisti e serie tv. All'inizio nessuno ci fece caso, altri uomini della sua età in fondo vestivano allo stesso modo. Ma Giulio cominciò a frequentare i locali dei ventenni. Anna provò a parlargli e fu quella la prima volta che Giulio tirò in causa il treno in corsa: «Tu non capisci, mamma, tutto quello che ci succede non ha senso, gli anni passano, invecchiamo, accettiamo tutto senza reagire. Andiamo dritti verso l'infelicità, un treno che corre verso un muro, ma io frego tutti. Io scendo prima». Anna sperò che Giulio scherzasse, ma le cose peggiorarono. Si tinse i capelli ingrigiti, si comprò uno scooter, quasi sempre aveva le cuffie dell'iPod, su Facebook scriveva di avere 20 anni. Era sempre più strambo e Anna con una scusa gli chiese di non lavorare più nel negozio di famiglia, che sarebbe stato più utile nella gestione del sito. Poi però divenne violento: in un bar aggredì una ragazza che rise quando le disse di avere vent'anni. Picchiò i carabinieri in caserma a cui ripeté di essere un ventenne. Urlò contro la madre quando tentò di convincerlo che la commedia doveva finire. Fino a quando, a 45 anni, dopo che aveva accoltellato tre ragazzi che gli chiesero cosa ci facesse in un bar frequentato dai giovani, Anna fu costretta ad accettare che fosse rinchiuso in una clinica. Fu lì che conobbero la dottoressa Carla. Era l'unica che sapeva gestire la rabbia di Giulio. Spiegò ad Anna: «Giulio non ha avuto una giovinezza felice, per la malattia del padre. Ora si fa restituire quegli anni».
Anna vide la sua auto, cercò le chiavi, capì di essere troppo stanca, si adagiò al suolo e morì. Al funerale Giulio aveva alcuni capelli bianchi e quasi rasati a zero, aveva rinunciato alla tinta . Indossava un completo scuro e la cravatta: non succedeva da vent'anni. Pianse. Il giorno dopo disse alla dottoressa: «Mi lasci uscire. Non farò altre follie. Ho capito che non potrò mai scendere dal treno». La dottoressa Carla lo abbracciò: «Va bene». Una settimana dopo la dottoressa pensò che il prossimo anno avrebbe compiuto 65 anni e che sarebbe stato patetico aspettarsi una nuova imprevista felicità. Gli mancavano Anna e Giulio. Si tolse la vita.
Giulio, ingrassato, andò anche al funerale della dottoressa Carla e pianse. Vendette il negozio e partì per un viaggio in oriente. Atterrò a Bali e di lì, irrequieto, passò da un aereo all'altro, da una nazione all'altra. Non fingeva più, era solo un educato turista cinquantenne. Non era felice, ma si distraeva. «L'unica soluzione è distrarsi dal treno in corsa». Un giorno salì su un aereo diretto in un'isoletta dell'Indonesia. A bordo c'era solo un gruppo di ragazzi australiani. In volo, le condizioni del tempo peggiorarono, il pilota tentò un atterraggio di fortuna. Giulio, i sei australiani e una giovane hostess si salvarono. In otto - quattro uomini e quattro donne, tutti tra i venti e venticinque anni ad esclusione di Giulio - si ritrovarono a sopravvivere in una foresta. Usarono le poche provviste che c'erano a bordo con oculatezza, impararono a cacciare. L'autorità di Giulio venne subito riconosciuta. Fece l'amore con la hostess, poi però lei si fidanzò con un australiano. Avrebbe dovuto sentirsi tradito e invece si sentì galvanizzato da questi intrecci e dopo poco fece coppia con un'australiana. In attesa dei soccorsi, il gruppo organizzò una sorta di villaggio allegro. In spiaggia, ogni sabato, facevano una festa, cantavano e ballavano. Giulio, un giorno, sulla cima della collina, sorrise. In lontananza, vide uomini in divisa che stavano facendo delle ricerche. Non attirò la loro attenzione. Tornò al villaggio. Agli altri non disse nulla.

lunedì 9 febbraio 2015

i corti che escono su move magazine/ 22 volevo solo una che mi scattasse le foto

copia e incolla da move magazine

di Mauro Evangelisti

Volevo solo una che mi scattasse le foto


 Stava bene, aveva trovato un equilibrio soddisfacente, senza troppa fatica. Da solo. A trent'anni era un disegnatore ben pagato, nascosto dietro a uno pseudonimo. Così poteva partire quando voleva e viaggiare lo aiutava a trascorrere il tempo senza affanni. Non desiderava una donna o, più precisamente, una relazione. Per il sesso pagava, il metodo era efficace e senza le controindicazioni di una partner fissa. Voleva fare ciò che voleva, quando lo voleva. Decidere quando partire e quando tornare. Fermarsi vicino le cascate del Niagara, sotto il Golden Gate, lungo il Malecon, all'ombra delle Petronas Tower, a piazza Tien An Men o sulla Grand Place e scattare foto, caricarle su Instagram. E soprattutto selfie, che testimoniavano il suo passaggio nei differenti luoghi. Così la vita proseguiva senza scosse tra le giornate intense del disegno quando doveva consegnare un lavoro, le telefonate alle escort che una volta al mese convocava nel suo appartamento, la ricerca su Internet di un volo per partire quando gli impegni erano stati rispettati, la preparazione di una lista di luoghi da visitare nella città o nella nazione prescelta, i ristoranti migliori, le discoteche con le ragazze più disponibili, le foto, i selfie. Andava bene così e quando quelli della casa editrice lo invitavano a prendere un aperitivo, a mangiare una pizza, a una festa, lui quasi sempre rifiutava perché sapeva che si sarebbe annoiato. Il flusso di vita organizzata che aveva imparato a gestire era tutto ciò di cui aveva bisogno. A giugno partì per Cartagena de las Indias, Colombia: aveva letto un articolo in cui si magnificavano le bellezze del centro storico e delle spiagge e la vivacità della vita notturna. La seconda sera, in una discoteca frequentata da turisti in cerca di ragazze e da ragazze in cerca di turisti con i soldi, passò in rassegna con lo sguardo le bionde, le rosse e le brune, i jeans attillati, le tette rifatte, le gonne minuscole. Poi si avvicinò a una bassa e dai capelli scuri e le chiese di andare in hotel con lui. «Me llamo Angela» gli disse. Dopo un'ora di sesso le diede l'equivalente di cento euro e le chiese di andarsene. «Non vuoi che resto a dormire con te?». «Preferisco di no» rispose, sincero perché non sopportava dormire con un'altra persona. Due giorni dopo passeggiava nei vicoli del centro coloniale, tra i palazzi di pietra chiara, faceva molto caldo ed era sudato. Si fermò per scattarsi un selfie con la cattedrale alle spalle. Sentì una voce rivolgersi a lui, in italiano: «Ti scatto una foto, guapo?». Era Angela. Le diede lo smartphone e si lasciò fotografare. Trascorsero il pomeriggio tra i vicoli e le piazze, il Palacio de la Inquisicion e Plaza Santo Domingo. Angela gli scattò decine di foto. Quando gli propose di farsi un selfie insieme, lui rispose che preferiva di no e lei non glielo chiese più. Lui però si accorse di stare bene con Angela, non era più costretto a strane contorsioni per scattarsi i selfie. Si lasciò convincere a tornare in Colombia tre mesi dopo, lui che non aveva mai dato troppa importanza al denaro esaudiva ogni richiesta di Angela. Accettò anche di seguirla a Baranquilla, per conoscere la sua famiglia. Si abituò a dormire con lei, a usare il gabinetto sapendo che lei poteva entrare in qualsiasi momento. Cinque mesi dopo la invitò in Italia è la sposò, per rendere tutto più semplice. Lei trascorreva le giornate a guardare la tv o chattare su Facebook con altri colombiani. Ogni tanto partivano - Parigi, Barcellona, Capri - e lei gli scattava le foto. Non si fecero mai una foto insieme. A volte andavano a Civita di Bagnoregio, nel Viterbese, ad Angela piaceva, perché lì avevano girato una telenovela brasiliana che guardava quando era bambina. «Tu sei troppo freddo, distante, mi sembra di essere sposata a un computer» un giorno gli disse. Lui non rispose, pensando che non fosse importante. Di giorno in giorno la vide sempre più scura in volto, assente. Non rideva più. Finché una sera gli annunciò: «Io me ne vado, non ce la faccio più, mi dispiace. Non ti preoccupare, non voglio i tuoi soldi». «Fai come vuoi» rispose lui, non troppo preoccupato perché in fondo aveva sempre vissuto da solo, bastava ripristinare l'antico equilibrio. Non fu difficile. L'accompagnò alla stazione, Angela si trasferì in un'altra città. Lui non lo notò, lei lo nascose perché era troppo orgogliosa, ma prima di salire sul treno una lacrima sbucò da sotto gli occhiali scuri. Lui tornò alla sua vita di sempre. Si comprò un'asta per scattarsi i selfie. Sentiva solo uno sfuggente sapore amaro in bocca. «In fondo - si disse una volta quando faticava ad addormentarsi - io volevo solo una che mi scattasse le foto». Oggi è passato un anno da quando Angela è salita sul treno. Lui, senza motivo, ha guidato fino a Civita di Bagnoregio, ha percorso a piedi il ponte, si è fermato al centro della piazza, e ha preso lo smartphone. Prima ha fatto qualche foto per Instagram, poi ha girato la fotocamera per il selfie. Sente una voce: «Ti scatto una foto, guapo?»

martedì 6 gennaio 2015

i corti che escono su move magazine 21/ la nazione felice

copia e incolla da move magazine

di Mauro Evangelisti


 La nazione felice


Lisa si fermò a prendere fiato e ad ammirare il parco. Perfetto, l'erba dei prati ad altezza regolare, le foglie degli alberi arancioni, il sole rosso del tramonto. Si diffuse la musica in sottofondo e Lisa, mentre si asciugava il sudore del footing, capì che erano le18. Come gli altri cittadini del parco, restò immobile, con la mano destra sul cuore. Le note dell'inno del Grande Stato di Occidente accarezzavano, come sempre, le sue emozioni. Al termine una voce tenue ma ferma annunciò: «Godetevi la vita, secondo tutti i ricercatori non è mai stata bella e felice come in questa epoca. Da 23 anni nessun cittadino vive sotto le soglie di povertà». Succedeva sempre così: dopo l'inno, una breve frase - breve, anche la noia era stata annientata dal Grande Stato di Occidente - ricordava uno dei successi raggiunti nell'epoca migliore della storia. «E in effetti è così - si disse Lisa tollerando retorica e propaganda con le quali era cresciuta - guerra e povertà sono solo argomenti di storia, neppure riusciamo a immaginarle». Vide i capelli biondi di Jack, che come sempre correva con la canottiera fuori dai pantaloni, una sfida al sistema che non scandalizzava nessuno. «Ti piace questa merda della propaganda?» le disse. «Originale il tuo modo di invitarmi a cena» gli rispose.
Dopo due ore erano sotto la doccia, nell'appartamento di Jack al settantaduesimo piano da cui si ammirava la città, ordinata e sterminata. Fecero l'amore, lei selvaggia, lui impacciato, e poi cenarono. «Perché critichi la nostra società? Pensi davvero che in passato tra guerre, rivolte, ricchezza per pochi e povertà per molti, si stesse meglio? Vi è mai stata un'epoca migliore di questa? Anche la famiglia meno ricca ha una casa che un tempo sarebbe stata considerata lussuosa. Lavoriamo solo una decina di ore alla settimana, facendo ciò che più ci piace. Il benessere diffuso ha annullato le ragioni dello scontro sociale. Cosa c'è di sbagliato? Sei un irriconoscente e immaturo».
Dopo quattro ore di auto, di notte, con Jack sovreccitato che ripeteva «dobbiamo fare attenzione, esiste un unico percorso che evita i sensori, una falla del sistema che pochi conoscono», Lisa si pentì di avere accettato di seguirlo.
L'auto di Jack si fermò su un altopiano. Il sole non era ancora sorto. Jack allungò a Lisa il visore a infrarossi, che consentiva di vedere al buio e attraverso le mura (ma i palazzi della città erano schermati).
Lei guardò e sorrise: «È uno scherzo? Stanno girando un film?». Poi ironicamente applaudì: «Io dovrei credere a tutto questo?». «Anch'io all'inizio non ci credevo, siamo stati educati a credere ad altro. Però prova a chiederti: chi ha costruito i nostri grattacieli ? L'auto perfetta con cui siamo arrivati fin qua? I tuoi vestiti? Chi pulisce le fogne? Dove finiscono i rifiuti?». «Le macchine, fanno tutto le macchine, per questo non siamo più schiavi del lavoro». «Schiavi, ecco hai detto la parola giusta. La ricchezza di un popolo, di uno Stato, si è sempre basata su violenza e schiavitù. Hai visto gli stabilimenti? Il visore ti ha mostrato uomini, donne e bambini al lavoro. Non è il set di un film. Laggiù ci sono i trenta milioni di schiavi sui quali si basa la vita felice dei tre milioni di abitanti del Nuovo Stato di Occidente. La nostra è una società perfetta, vero, senza povertà, ansia, rispettiamo gli altri, la diversità di chiunque, i reati sono assai meno che in passato. Ma solo perché abbiamo al nostro servizio trenta milioni di schiavi». «Perché non si ribellano?». «Verrebbero uccisi dalle nostre forze di pace, ma soprattutto pensano che non vi siano alternative, che il mondo debba essere così e non potrebbe essere differente, proprio come te».
L'auto, dopo mezz'ora, si avvicinò a una recinzione. Lisa vide centinaia di persone con abiti stracciati, pelle sporca, sguardo basso, denutrite, che si trascinavano lungo una strada fangosa. «Cosa vuoi fare?». Jack entrò da un foro della rete e si avvicinò a una decina di quegli uomini. «Dovete fuggire, potete essere liberi» urlò. Lo circondarono, lo buttarono a terra e cominciarono a picchiarlo. Lisa gridò, si udì una sirena, arrivarono agenti delle forze di pace, spararono agli uomini che stavano pestando Jack. Lo liberarono e lo portarono oltre la recinzione. Un ufficiale andò a parlargli: «La lasciamo andare solo perché suo padre fu il fondatore del Grande Stato di Occidente. Dobbiamo a lui la nostra felicità. Ma se ci riprova, informeremo le autorità supreme». Durante il viaggio di ritorno Jack e Lisa non parlarono. Il silenzio fu rotto da alcune esplosioni, lontane. Lisa ricordò di avere visto Jack passare un foglio agli aggressori. «Sì, è come credi - disse lui, intuendo i suoi pensieri - l'aggressione era finta, dovevo consegnare ai ribelli la mappa dei nascondigli dell'esplosivo. La rivolta è iniziata, il Grande Stato di Occidente sta finendo». Lisa si chiuse a gomitolo sul sedile dell'auto. Era terrorizzata. Non voleva perdere il suo mondo.i

Archivio blog

search